Sono ormai quasi quarant’anni che i Grave Digger si elevano nel mondo della musica come paladini dell’Heavy Metal. Fondatisi in Germania nel 1980, sono riusciti a costruirsi un sound con il proprio stile senza fronzoli, riconoscibile al primo ascolto con il loro True German Heavy Metal… e poi arriva “Zombie Dance“, il secondo singolo tratto dal nuovo album “The Living Dead” in collaborazione con i compagni di etichetta Russkaja, e ti chiedi se è veramente l’ora del ritorno degli Anunnaki e della relativa fine del mondo. Perché ai Grave Digger che osano tanto come in “Zombie Dance“, non ero psicologicamente preparato. All’inizio non sapevo se fosse uno scherzo o una scelta coraggiosa che sfociava nell’assurdo. Poi ammetto che, ascoltandola meno superficialmente, ci ho trovato qualcosa di buono e ho deciso di dare un’altra possibilità alla band tedesca. Appena ho avuto in mano il nuovo disco, la domanda mi è sorta spontanea: anche gli altri brani avranno quell’influenza balcanica da burek e rakija o, tranne questa singola deviazione a est, il resto dei pezzi si assesterà sul tradizionale stile Grave Digger?
Spontanea la domanda e semplice la risposta! Già dalle prime note di “Fear Of The Living Dead” ecco tutto quello che vogliamo sentire dai Grave Digger. Riff taglienti, tempi prevedibili, linee vocali narranti e ritornelli melodici e grazie al cielo si continua così con il secondo, terzo, quarto e quinto brano dell’album, ma anche con il settimomì, l’ottavo e il nono! Una delizia sonora per delle orecchie abituate alle antiche e vere sonorità classiche del metal. Poi è il turno di “Zombie Dance“, ma di questa credo di averne discusso abbastanza all’inizio di questa recensione. Nell’album a mia disposizione è presente pure una bonus track intitolata “Glory Or Grave“, anche questa, come le prime nove canzoni del disco, in perfetto Digger Style.
Complessivamente “The Living Dead” è un buon diciannovesimo album di una band tra le più prolifiche della storia del metal. La voce di Chris Boltendahl è sempre più grintosa e cattiva, man mano che gli anni passano, anche se a farla da padrona sono i riff di Axel Ritt, tipici e tradizionali come sempre, ma che allo stesso tempo non suonano mai banali e ripetitivi. Un buon album, non certo capace di entrare nella top 3 della discografia della band tedesca, ma che dimostra come il quartetto teutonico sia pronto a festeggiare tra due anni, sempre più gagliardo e vigoroso, il quarantennale di attività.