Dopo ben quattro decadi di carriera e oltre venti album pubblicati tornano alla riscossa i teutonici Grave Digger, una delle band più influenti e pionieristiche della scena heavy metal tedesca dai primi anni ’80.
Con “Fields of Blood” si completa la triade scozzese (iniziata con “Tunes of War” nel 1996 e continuata con il più recente “The Clans Will Rise Again” del 2010) inserendo sonorità tradizionali delle Highlands e ottenendo una semplice ma gradevole rinfrescata al classico timbro heavy del gruppo.
Pur non avendo mai subito grossi cambiamenti nel corso del loro iter musicale, la formula dei becchini tedeschi vede anche in quest’ultimo lavoro numerosi riff grintosi ben riusciti, ritmiche impattanti e tanti (forse troppi) cori epici. Tutte caratteristiche in perfetta linea con il classico heavy-power metal graffiante che la band ha sempre saputo comporre e far funzionare attorno al frontman Chris Boltendahl, la cui età sembra non essere mai cambiata.
Come già anticipato, “Fields of Blood” crea nuovamente un paesaggio sonoro prettamente legato alla Scozia e, già dai primi secondi, l’intro strumentale “The Clansman Journey” fa sì che le cornamuse assumano il ruolo degli strumenti cardini in questione. “All for the Kingdom” ci trascina tra i suoi riff taglienti e potenti cori epici, il lavoro dietro le pelli di Marcus Kniep non passa inosservato e ne avremo un alto livello di gradevolezza per tutta la durata del disco.
L’indice del fattore “epic” non tende a calare per nulla con i brani successivi: “Lions of the Sea” e “Freedom” lavorano bene e tengono alto il tiro di una sfera musicale sfrenante degna di nota.
“Heart of Scottland” risulta essere l’ennesimo inno battagliero anche se ritmicamente più lento e accattivante, mentre nella ballad “Thousand Tears” vediamo la partecipazione di Noora Louhimo (Battle Beast) che, duettando con Boltendahl, accarezza vocalmente il sound del brano senza però lasciare troppo il segno.
Decisamente più convincente è “Union of the Crown” grazie al riff semplice e immediato di Axel Ritt che, spalleggiando con la quattro corde di Jens Becker, definisce uno dei momenti più salienti dell’album, costruendo un vero e proprio muro sonoro di puro acciaio inox. Di analoga consistenza troviamo “My Final Fight” con una galoppata di basso/chitarra che strizza l’occhio ai fan degli Iron Maiden senza nulla togliere alla buona prestazione generale della band.
Dopo la sprintosa “Gathering of the Clans”, la riempitiva “Barbarian” non aggiunge né toglie nulla e passa abbastanza inosservata. Nonostante ciò, i dieci minuti (forse troppi) della title-track rappresentano una buona condensazione di tutti gli elementi del disco in un unico intrigante brano, mentre con la chiusura orchestrale di “Requiem for the Fallen” rimaniamo complessivamente soddisfatti dell’ascolto, ma non troppo.
Con “Fields of Blood”, la formazione tedesca sicuramente arricchisce il repertorio dei brani dal buon potenziale in sede live senza aggiungere grosse innovazioni se non per qualche rinfrescata proveniente dal concept scozzese. I Grave Digger quarant’anni dopo la loro nascita risultano essere tra le band più coerenti in circolazione, rimanendo fedeli al loro marchio tradizionale all’insegna del buon vecchio metallo puro, incrollabile e glorioso che non per forza deve essere ricco di particolari sorprese.