La one man band austriaca Frust ritorna con il secondo album, “The Advent of Adhara”, che verrà pubblicato il 20 maggio per 901514 Records.
Il progetto Frust nasce dal mastermind Mario Steiner nel 2018, rilasciando un primo EP, “Elements”. Nel giugno 2019 pubblica “Recurring Dreams”, il primo album del progetto, dove si delineano ancora di più le direzioni musicali scelte da Steiner: ci troviamo di fronte ad un miscuglio sperimentale di blackened/thrash/atmospheric metal, il tutto coronato da voci femminili a dare un tocco in più. Viene comunque classificato come post-black metal, che riesce per lo meno a riassumere l’intento musicale di Steiner.
L’obiettivo del progetto Frust infatti è quello di creare un forma unica di metal sperimentale, con influenze blackened, thrash e folk. Sicuramente questo nuovo “The Advent of Adhara” è riuscito là dove “Recurring Dreams” non ce l’aveva fatta: prima di tutto, il nuovo album mostra più parti cantate (il ruolo della voce femminile è fondamentale) e specialmente vi sono meno canzoni strumentali. In quest’album le idee di Steiner si dimostrano molto più chiare, dando vita ad un ascolto molto più interessante rispetto al predecessore.
Sviluppandosi in 38 minuti divisi in dieci canzoni, “The Advent of Adhara” sembra essere un concept album, sviluppato, come suggeriscono i ventidue secondi di “Intro”, attorno all’arrivo di un sole gelato che incombe sulla Terra. Questa introduzione potrebbe essere facilmente scartata, se, per l’appunto, non ci desse il quadro sul quale si sviluppa l’album: vengono usati sintetizzatori vocali, pianoforte inquietante, chitarra pesante e acida. Un inizio un po’ “plasticoso” che però non deve scoraggiare.
Il resto dell’album si può dividere i due grandi insiemi. “The Advent of Adhara” è sicuramente molto più malinconico del predecessore, come dimostrato dalla maggior parte delle composizioni, veramente molto belle e a volte delicate. “My Final Day May Never Come” è leggiadra nonostante l’uso di un growl tipico del black metal a cui certamente sono stati applicati dei filtri vocali, c’è dello spazio per un triste assolo, ma la parte atmospheric che la permea è il tocco che la rende speciale: è un brano molto semplice ma di gradito ascolto. Segue subito “Alone”, un piccolo gioiello di una malinconia unica, sognante e leggera, a cui si aggiunge una bellissima voce femminile. La chitarra elettrica però non scompare, facendo da sottofondo a tutta la composizione; fa sentire la sua voce solo quando sembra voler sfidare il dolcissimo cantato. La title-track continua l’uso della voce femminile e aggiungendo degli archi nell’introduzione. Nello sviluppo richiama “Alone”, diventandone una specie di continuazione, ma lasciando che alcune fiamme nere lambiscano la composizione. Si segnala un assolo da brividi, semplice e sofferente, relegando la canzone ai punti più alti raggiunti dall’album. “On the Last Day” unisce la voce black con quella femminile, creando una specie di ballad soave e tristissima: spuntano alcune note di un sofferente pianoforte, ma la chitarra è onnipresente in sottofondo. “Forever In My Mind” è cruda nell’introduzione: alla linea vocale viene aggiunta un effetto di distorsione inquietante quanto basta. Il dolore e la tristezza se ne riprendono possesso quasi subito, anche grazie ad una chitarra sofferente e solitaria. Queste due atmosfere così differenti ma in un certo senso complementari si prendono per mano, camminando insieme fino alla conclusione dell’album.
C’è dello spazio anche per la rabbia più classica del Black: la bellissima “Frozen Sun”, ad aprire le danze, rispetta completamente i canoni del genere, la parte vocale è relegata in sottofondo, tanti bei assoli e molte sfumature atmosferiche ad impreziosirla. “The Feast” è pesantissima, quasi violenta trovandosi dopo tre bellissime canzoni di delicata malinconia. È minacciosa, con un basso profondissimo che fa sentire chiaramente la sua voce, ma è anche breve e ripetitiva. “Disbelief” è una strumentale che cerca di unire i due grandi insiemi, mantenendo il lato triste che avvolge l’album ma tentando qualche infuriata cattivissima, quasi a voler rappresentare perfettamente il sentimento descritto dal titolo; nel lungo finale finalmente ci riesce, la rabbia divampa senza abbandonare l’infelice filo conduttore. “Verfall pt. II” è probabilmente la canzone più triste dell’album; la batteria interviene con il doppio pedale ed è accompagnata da una ruggente chitarra in alcuni punti, ma per lo più è malinconica e ripetitiva, un mid-tempo pesante e soffocante, arrivando a creare un senso d’angoscia che finora non si era ancora incontrato.
Non è esattamente tutto rose e fiori; diciamo che c’è qualche errore di produzione qui e là e molto spesso le canzoni si interrompono bruscamente lasciando l’ascoltatore interdetto; il prodotto finale però non è veramente male e può lasciare soddisfatti. Consigliato a chi piace il metal sperimentale, anche se sicuramente anche agli amanti del black meno intransigenti piacerà. C’è dell’ovvio spazio per del miglioramento, ma considerando il grande passo avanti rispetto al predecessore non sarà difficile raggiungere la vetta massima possibile.