Dieci anni. Ne è passata di acqua sotto i ponti per gli Epica e il loro successo è sotto gli occhi di tutti. Al di là di tutte le chiacchiere da bar, delle critiche, della deriva mainstream che molti additano agli olandesi da un paio di album a questa parte, delle insinuazioni e delle frecciatine che ogni band metal con una cantante deve fronteggiare e aspettarsi: al di là di tutto, è innegabile come gli olandesi abbiano costruito il loro successo sulla musica, prima di tutto. Ovvio, accasarsi alla Nuclear Blast comporta avere una cassa di risonanza molto più ampia e quindi guadagnare in popolarità, ma i Nostri non si sono adagiati sugli allori arrivati lì: anzi, a partire dal qui presente “Design Your Universe” fino all’ultimo “The Holographic Principle”, hanno sempre cercato di evolversi, verso un sound sempre più metal e un po’ meno pomposo/sinfonico. Il merito principale degli Epica è quello di essere sempre riconoscibili, al di là delle politiche di Nuclear Blast che tendono un po’ troppo ad “uniformare” il sound: perché appena parte la canzone…. “Ma sì! Sono gli Epica questi!”
E il vero punto di svolta per gli olandesi è stato proprio “Design Your Universe”, e il fatto che sia così tanto amato dai fan fa capire il perché rappresenti una pietra angolare nella carriera del combo olandese. Da qui parte la rincorsa al trono dell’Olimpo del Symphonic Metal, che li avrebbe portati da lì a un paio di anni a scalzare dei Nightwish sempre più dismessi e persi. Il disco in questione è il secondo nato sotto l’egida della Nuclear Blast, dopo che il precedente “The Divine Conspiracy” aveva già segnato dei notevoli passi in avanti a livello di produzione di songwriting: due fattori che in questo album raggiungono vette altissime, per la sorpresa di fan e critica. Le chitarre e le trame diventano più pesanti, reclamano ancor di più il posto, mentre nei precedenti album erano state messe troppo da parte a favore della componente orchestrale: e in “Design Your Universe” l’equilibrio è finalmente raggiunto. E mai più verrà perso dalla band.
Il decimo anniversario ci permette di fare, oltre a un confronto tra le due versioni (nulla di trascendentale), una breve recensione di un album che ogni amante del symphonic dovrebbe custodire, o perlomeno ascoltare una volta della vita. L’unico difetto di quest’album è la troppa qualità, che porta alla (quasi) inevitabile presenza di uno/due filler, tutti posizionati nella seconda metà dell’album, prima del gran finale. Il resto del disco è semplicemente devastante: riff abrasivi, assoli di chitarra a sorpresa (in tre album gli Epica ne avevano composto solo uno, in “Beyond Belief”, mentre in questo lavoro ne piazzano uno nella opener e altri due in giro per l’album), batteria terremotante, e comparto vocale finalmente completo. La svolta verso il metal e verso la pesantezza è sicuramente merito dei due nuovi innesti…uno e mezzo a dir la verità: il batterista Arien Van Weesenbeek aveva già collaborato nel precedente album, nonostante non fosse presente sul booklet, ma ora è ufficialmente parte della band. E la sua qualità, la sua versatilità sono forse ciò che mancava di più alla band: negli Epica la batteria era un semplice accompagnamento, raramente pestava sull’acceleratore con doppia cassa o blast beat, anzi, non dava mai l’impressione di voler spiccare il volo. Con Arien, violenza e tecnica si uniscono in un rullante carro armato che non lascia tempi morti, tra sfuriate e momenti meno tirati e più ariosi. Il neo-neoentrato (perdonatemi il neologismo) è il chitarrista Isaac Delahaye, dai God Dethroned (come Arien), e il suo impatto è evidente: oltre agli assoli, le chitarre hanno più peso specifico, nello scheletro della canzone ora ne costituiscono la spina dorsale, e da ciò la band ne trae beneficio.
In tutta questa innovazione heavy, il lato sinfonico non viene confinato nel dimenticatoio, anzi: se possibile, il sound più duro e granitico dona nuova linfa alle orchestrazioni, che spaziano fino a inserti orientali arabeggianti, sperimentati con successo nel precedente album. Questo connubio si unisce in canzoni che entrano di diritto nella top 5/10 (scegliete voi) della band: solo il singolo “Unleashed” vale il prezzo dell’album, e già da qui si può intuire quanto gli Epica si siano incattiviti. La simbiosi orchestra/metal è potente come non mai, una dà linfa all’altra, non fanno a cazzotti e non cercano di rubarsi la scena. Insieme al singolo, l’apice dell’album è rappresentato da quella che da molti è ritenuta la migliore canzone mai scritta dal combo olandese, ossia “Kingdom Of Heaven“. 13 minuti di classe al servizio del metal. 13 minuti in cui si passa da una intro di carillon, a strofe in cui Mark Jansen fa finalmente vedere dei progressi sotto la voce growl: più rotondo, più profondo, non più monocorde e strozzato come nei primi tre lavori della band, passando per sezioni strumentali in cui la chitarra cerca di arrampicarsi sulla scia delle note sciorinate dai violini. Ma il momento clou della canzone arriva al settimo minuto, quando l’atmosfera si scioglie, piano piano le chitarre acustiche entrano in scena e stendono un tappetto etereo su cui la voce in pulito di Simone Simons ruba innumerevoli cuori (e pure il vostro, non mentite!), mentre l’assolo di Isaac vi ruberà le ultime residue emozioni che vi sono rimaste. Una canzone caleidoscopica, così come caleidoscopico è l’intero album. Si passa da suite come la già citata “Kingdom Of Heaven” o la title-track, la summa del disco in quanto a epicità e seconda solo alla compagna per varietà di tempi, di atmosfere e di soluzioni, a canzoni annoverabili come le più violente nella carriera del combo come “Semblance Of Liberty”, quasi sorprendente nella sua cattiveria e nei suoi riff granitici, o “Martyr Of The Free Word”: ma c’è spazio anche per mid-tempo come “Our Destiny”, e per un’accoppiata che va dritta al cuore, il Nostro. “Burn To A Cinder” e “Tides Of Time”: così diverse, così vicine. La prima ha un incidere veramente pesante, ma il tutto viene arricchito dal cantato di Simone, che ci regala una performance di puro pathos e ci porta con lei verso l’iperuranio emozionale. Una volta arrivati lì, abbiamo il tempo di sperimentare l’Emozione con la E maiuscola, perché “Tides Of Time” prende il cuore tra le mani, te lo accarezza e con un tocco ti fa sentire vivo. Sulla voce di Simone non ho nulla da aggiungere, ma è la canzone in sé a essere una perla: orchestrazioni, batteria, chitarre, una alla volta, e poi tutte insieme, fino all’assolo liberatorio. Meraviglioso, meraviglioso, meraviglioso.
La versione remastered presenta le versioni acustiche di 5 brani dell’album originale, e se alcune come “Unleashed” e “Burn To A Cinder” mantengono la struttura dell’originale, rinfrescandolo con atmosfere acustiche che non potrete non apprezzare per la freschezza e la genuinità con la quale sono state composte, altre come “Martyr Of the Free Word” presentano un incidere completamente diverso, più melancolico, spiazzante ma che cresce con gli ascolti, mentre “Design Your Universe” risulta essere se possibile ancora più bella dell’originale.
In definitiva, “Design Your Universe” risulta essere l’apice della carriera della band a mio modesto parere, nonostante gli album successivi si siano mantenuti su livelli altissimi (specie con l’ultimo) e che testimoniano come la prima parte di carriera della band sia stata costellata da album di livello assoluto. Una band oliata nonostante alcuni cambi di formazione, un caleidoscopio di suoni e di atmosfere su una struttura ben consolidata, una cantante a livelli altissimi e dei musicisti ispiratissimi, e 5 nuovi brani rivisitati alla perfezione in chiave acustica: un gioiello che ogni amante del symphonic e non dovrebbe custodire nella propria collezione, e da ascoltare almeno una volta l’anno. Grazie Epica, e ringraziatevi anche voi comprando Design Your Universe.