Ci sono band per le quali la coerenza sta nel non cambiare di una virgola la loro proposta lungo i decenni, o quasi; altre, invece, per le quali essa sta nel mantenersi in costante cambiamento. Appartengono a quest’ultimo gruppo gli Enslaved che, dopo una carriera votata all’avanguardia sonora fin dagli albori, giungono con questo “E” al quattordicesimo tassello della loro discografia.
Rispetto all’ultimo, ottimo “In Times”, il percorso intrapreso dal quintetto di Bergen questa volta vira nuovamente verso la sperimentazione, con molteplici soluzioni inaspettate ma mai fuori posto. La classe sopraffina dell’accoppiata Ivar Bjørnson/Grutle Kjellson scaturisce da ogni nota di queste sei composizioni sì dalla durata importante (siamo sui sette/otto minuti di durata media), ma che non pesa affatto in virtù dell’estrema eterogeneità: la sezione ritmica, retta dal basso e dalla batteria sempre solida ed equilibrata di Cato Bekkevold, è a dir poco granitica sia sulle sfuriate più prettamente estreme che sui frangenti più progressivi, con questi ultimi che assumono un ruolo più importante che nell’immediato predecessore e che costituiscono la vera e propria punta di diamante del disco, con i numerosi cambi di tempo disseminati un po’ ovunque e le sonorità ricercate.
L’apertura è affidata alle già note “Storm Son“, introdotta da una sezione arpeggiata da brividi, e “The River’s Mouth“, le quali mostrano il lato più diretto della proposta dei Nostri. È dalla terza “Sacred Horse“, però, che la tavolozza si fa più variopinta, dipingendo paesaggi sonori disparati che si mescolano alla perfezione con le sezioni più convenzionali: organi vintage e assoli di chitarra dal sapore ’70s si intrecciano deliziosamente in “Axis of the Worlds“, per buttare dentro, nelle due tracce finali, anche il flauto e un magnifico sassofono (rispettivamente ad opera di Daniel Mage e Kjetil Møster) che si incastonano in un contesto quasi commovente nell’insieme. Su “Feathers of Eolh” e sulla sognante “Hiindiisight“, fa la sua comparsa anche Einar Selvik dei Wardruna, ormai collaboratore più che occasionale di Bjørnson in vari progetti. Non stupisce che queste derive esterne (Skuggsjá in primis) siano entrate fin nel midollo dei norvegesi in termini di songwriting: tra le mille sfaccettature di “E”, infatti, non manca quella più primitiva/emotiva legata alle tradizioni e al lato più intimista delle composizioni (basti sentire i minuti finali della su citata “Sacred Horse“). Promossa a pienissimi voti anche la new entry Håkon Vinje, autore di una prova eccelsa sia per quanto riguarda le tastiere che per la voce pulita, elemento tra quelli più distintivi dei Nostri.
La premiata ditta Kjellson & Bjørnson lascia parlare ancora una volta la propria musica, quindi, senza sbandierare innovazioni e cambi di stile: un disco decisamente sopra la media, in cui soluzioni atipiche e sperimentazioni sono portatrici di una qualità eccelsa in un panorama, come quello attuale, in cui band simili servirebbero come il pane.