Chi li conosce già, saprà bene quale sia lo stile gruppo, quanto esso sia intriso di particolarità, potenza e spesso non di facile ascolto o assimilazione nell’ambito deathcore. Per chi non li conoscesse, gli Emmure sono una band deathcore statunitense, nata dall’incontro fra il cantante Frankie Palmieri ed il batterista Joe Lionetti, ai quali si aggiungono in seguito Ben (il fratello di Joe) alla chitarra, il chitarrista Jesse Ketive ed il bassista Mark Davis. Nel 2015, quando tutto sembrava perduto, solamente il frontman Frankie Palmeri continua a rimanere in gioco, abbandonato da tutto il resto del gruppo. Ecco che con un bel colpo di scena, gli Emmure ritornano in pista nel 2017 con “Look At Yourself” sotto la SharpTone Records, collaboratrice della Nuclear Blast. La freschissima line-up è del tutto sorprendente: essa è costituita dal più che promettente chitarrista Josh Travis (Glass Cloud, ex-The Tony Danza Tapdance Extravaganza) , dal bassista Phil Lockett (ex-The Tony Danza Tapdance Extravaganza) e dal batterista Josh Miller (ex-Glass Cloud).
Sebbene “Look At Yourself” sia un album degno di nota, non presenta una marcata evoluzione stilistica rispetto ai sei album precedenti; esso è sempre costituito da un irresistibile (nu) deathcore nudo e crudo, privo di assoli e manierismi, fatto di breakdown e dall’immancabile stile vocale rappato misto al growl di Frankie, che però non mette in luce un possibile, seppur rischioso, segno d’audacia da parte della band, auspicabile soprattutto in seguito alla ventata d’aria fresca nella line-up. Ma addentriamoci all’interno dell’album: i 13 pezzi della tracklist sono concisi, mitragliate di particolarità sonore. “You Asked for It“, per la maggior parte strumentale, ci proietta, impazienti, verso l’atmosfera del disco. L’album esplode con “Shinjuku Masterlord“, intriso dello stile canoro caratteristico di Frankie. Le influenze nu-metal si fanno ben sentire nello stile di “Natural Born Killer” ed in “Flag Of The Beast“ che, assieme a “Torch“, sono le prime tracce ad essere state pubblicate. Gioielli sono anche “Ice Man Confession“, “Russian Hotel Aftermath“ e “Gucci Prison“, con il quale il disco si chiude magnificamente.
Concludendo, il vero salto di livello di questo settimo album risiede nella qualità dei suoni e sicuramente nelle ben che note capacità dei nuovi arrivati. Tuttavia è anche necessario riflettere a quanto gioverà questa, forse eccessiva, coerenza nello stile e se essa potrà portare nuovamente ad un declino di questa band.