I DREAM THEATER sono tornati dopo la non proprio fortunata avventura dell’ultimo album (o opera teatrale che dir si voglia) “The Astonishing”. La band newyorkese è pronta a dare in pasto al suo intransigente pubblico il suo nuovo lavoro intitolato “Distance Over Time”. Un disco diretto, 56 minuti di musica dove la band ha cercato di razionare al massimo i virtuosimi che escono dagli schemi classici, rendendo l’ascolto più digeribile anche ai non amanti del prog duro e puro e che magari, come spesso succede, farà storcere il naso ai fan più incalliti che ancora sperano in un nuovo album più incentrato sulle sonorità di inizio carriera.
L’album si apre con il brano scelto come primo singolo “Untethered Angel”, un bel mix di stilemi tipici firmati Dream Theater: arpeggio iniziale, ritornello catchy, assolo di chitarra con botta e risposta di tastiera, ed ecco che il piatto è servito in puro stile Petrucci. Con “Paralyzed” si passa a una sonorità più oscura che contrasta piacevolmente con il pianoforte di Rudess che si sente in sottofondo durante il ritornello e la seconda strofa del brano, creando un duello tra l’oscuro e il cristallino che è la vera ciliegina sulla torta di questo pezzo. In “Fall Into The Light”, brano da oltre sette minuti scelto come secondo singolo di anteprima, è notevole la parte solista centrale con un fantastico ed epico, seppur non originalissimo, assolo di chitarra, che viene ripreso poi da tutta la band suscitando una sensazione di magia quasi orchestrale. Questa atmosfera viene infine spezzata dalle rullate di batteria di Mangini e dall’assolo del “mago” Rudess.
Stiamo entrando nel vivo dell’album e nel brano seguente “Barstool Blues” si possono cogliere delle sonorità un po’ “Retro Dream” con linee melodiche che fanno eco ai primi anni 2000. In “Room 137” e “S2N”, scritti rispettivamente da Mike Mangini e John Myung, con l’immancabile presenza del mastro chitarrista, la band dimostra di saper ancora creare musica tecnica disordinatamente ordinata nella sua melodicità. “At Wit’s End”, il brano più lungo dell’album, è un mix di tutto quello che hanno di caratteristico i Dream Theater, dal riff iniziale velocissimo, al ritornello orecchiabile, gli assoli di un livello inarrivabile e la voce del “LaBrie registrato in studio” che ti fa emozionare in ogni parte melodica, tanto più se accompagnata dal pianoforte di Jordan Rudess.
Sensazioni quest’ultime che raggiungono il picco nel brano successivo, “Out Of Reach”: pianoforte, voce e la chitarra di Petrucci che incanta. E così, finalmente o purtroppo, siamo giunti all’ultimo brano dell’album “Pale Blue Dot”. L’album chiude in bellezza con questa perla del prog ricca di dimostrazioni tecniche di batteria, chitarra, tastiera che accontenteranno anche i palati più esigenti; degno brano per concludere questa ultima fatica dei Dream Theater.
“Distance Over Time” è un album piacevole da ascoltare che conferma la direzione intrapresa dalla band newyorkese alcuni anni fa: portare più melodia e possibilità di ascolto anche a chi non ha le orecchie programmate per la musica prog più elaborata. Cercando per quanto possibile di non uscire troppo dagli schemi e lasciando i tecnicismi più esasperati a un passato che probabilmente non tornerà più, la band ha prodotto un album facilmente ascoltabile e che riesce a emozionare in più punti. A conti fatti, va bene così, del resto il tempo passa e Petrucci e soci, riguardo alla tecnica, non hanno più bisogno di dimostrare niente a nessuno.