Dall’underground del doom statunitense emerge un concept album molto particolare che tratta di un uomo che, dopo la morte, intraprende un viaggio attraverso l’aldilà. Nel suo percorso incontrerà alti e bassi, ma, alla fine, il messaggio è chiaro: sarà destinato a soffrire fino alla fine dei tempi. Da qui il titolo Mors Aeterna, ovvero il terzo album in studio della band doom metal texana DESTROYER OF LIGHT, rilasciato da Argonauta Records il 24 maggio 2019. Formato nel 2012 ad Austin, Texas, il gruppo è composto da: Steve Colca (chitarra e voce), Keegan Kjeldsen (chitarra), Penny Turner (batteria) e Nick Coffman (basso).
È innegabile che il gruppo sia stato influenzato dalla teatralità dei Mercyful Fate e dalla struttura ritmica di gruppi come Sleep e Electric Wizard, a testimonianza del fatto che “prendere” da queste band sia un andazzo comune di tutte le band pseudo-stoner o doom moderne. Sebbene si tratti di un album doom, in generale la musica è (relativamente) calma, ma non deprimente come ci si aspetterebbe. Ciò è dovuto al fatto che, intrinsechi nel tessuto del lavoro, ci siano elementi stoner non trascurabili. Dal punto di vista dei riff di chitarra, si potrebbe dire che i Black Sabbath abbiano fatto il loro, almeno in quanto a imponenza e intensità; detto ciò, talvolta i DoL si lasciano alle spalle il “vibe” stoner e si rivelano particolarmente aggressivi. Una primissima critica potrebbe essere la poca creatività in alcune parti o nei testi (non è facile essere del tutto innovativi in genere come questi), ma tutto sommato sono presenti più concetti degni di nota che poco convincenti.
Analizzando brano per brano, l’album si apre con l’Intro “Ouverture Putrefactio”, composto da pianoforte e organo e dalla durata di un minuto; si rivelerà leggermente incongruente con il materiale che segue ma proietta l’ascoltatore in un ambiente tetro e morboso, e la sua natura inusuale richiama l’attenzione. La traccia che segue è “Dissolution”, la prima vera canzone dell’album, in cui lo stile stoner si rende da subito ben udibile. La doppia armonia delle chitarre si intreccia in modo poetico in un equilibrio imperfetto di melodie: non seguendo la musica canonica, l’effetto che scaturisce è molto coinvolgente per l’ascoltatore. Per quanto riguarda il cantato, la voce di Steve Colca è lontana dall’essere miserabile o arrabbiata, ma è efficace sia per la potenza che per la qualità, oltre al coinvolgimento emotivo: i testi vertono tutti intorno al tema dell’occulto, come si può notare dalla copertina. In seguito c’è ”Afterlife”, che inizia con un basso distorto, rotondo e pungente: a prova di headbanging. È possibile notare che la band sia ben costruita intorno ad un’alchimia precisa, frutto di un considerevole lavoro alle spalle. A tratti sembra una canzone ambient black metal, a causa del cupo e misterioso sintetizzatore. Se questo non fosse un concept album profondo con una storia definita, molti questionerebbero il perché dell’inclusione di questo tipo di elementi nell’album, ma una volta che viene compreso, sembra più appropriato. Passando avanti, dopo l’intermezzo inaspettatamente synth (e forse non troppo “azzeccato”) intitolato “The Unknown”, è la volta di “Falling Star”, forse la vera perla dell’album. È un’unione di emozione e robustezza: il ritornello è una sorta di doom melodico, ma dopo due terzi di canzone la musica diventa più pesante e aggressiva per poi concludere di nuovo in bellezza con una serie di armoniche naturali di chitarra (ancora una volta, melodia). La sesta traccia, “Burning Darkness”, sembrerebbe una ballad visto che l’inizio della canzone trasmette una sorta di malinconia esistenziale, ma, non appena parte il riff tagliente di chitarra, il brano si apre e stupisce. Sebbene abbiamo davanti una serie di brani abbastanza lunghi, non stancano come certi album stoner. Anzi, direi che l’ascoltatore venga quasi ipnotizzato: gli strumenti sono mixati ottimamente, in particolare il basso è molto alto e imponente, una goduria per le orecchie. Ho potuto costatare con gioia che questa onnipresenza del basso sia stata evidente anche live, in base alla loro ultima prestazione del 25 maggio 2019 a Visome (BL), presso The Werewolf Koala Pub, dove hanno condiviso il palco con i Messa e con i Maat Mons. Dopo un’altra mini strumentale, “Pralaya’s Hymn”, questa volta di due minuti, ci troviamo di fronte all’ultimo terzetto dell’album. “Loving The Void” ci ricorda che, dopotutto, le radici non mentono. E peculiarmente “southern”, ma al contempo psichedelica e leggermente jazz; funge da boccata di aria fresca. Dopo “Into The Abyss”, un’ultima strumentale di un di un minuto e mezzo, questa volta di sola chitarra, appare l’ultima canzone dell’album, “Eternal Death”, praticamente la title track. È una fine più che degna, conferisce forza drammatica e sembra che un cataclisma sia imminente. È un pezzo tuonante, che svanisce poi in un outro orchestrale forse lievemente inappropriato. Infatti, nonostante si tratti del tema del viaggio e delle conseguenti alterazioni dello stato mentale, talvolta questi piccoli “sprazzi” orchestrali sembrano leggermente fuori luogo, sebbene rinvigoriscano lo “storytelling”.
In conclusione, sono la capacità musicale e la passione del gruppo ad essere messi in risalto: sebbene a tratti, come nei casi degli assoli di chitarra blues, si noti una certa carenza di tecnica, i virtuosismi non sono ciò di cui abbiamo bisogno in un album di questo genere. Piuttosto, è la qualità umana che trasuda dal lavoro che mi ha colpito particolarmente, ed e ciò che rende l’album un ascolto indubbiamente godibile e ricco di spunti interessanti.