I Descend sono un gruppo svedese formatosi nel 2003 a Stoccolma. Per molti anni la band si è mossa nell’ombra ed ha debuttato soltanto nel 2011. Il secondo album “Wither” del 2014 gli porta una prima attenzione internazionale e viene giudicato in modo positivo. Per un’altra conferma della loro bravura abbiamo atteso il terzo disco “The Deviant”, uscito per la norvegese Aftermath Music il 26 giugno di quest’anno.
Il nuovo capitolo sembra un po’ più omogeneo rispetto al precedente disco, cambiando meno ritmo e mantenendo un’evoluzione più lineare delle canzoni. Una ragione di questi cambiamenti potrebbe essere anche la nuova formazione, con il batterista Jonathan Persson e il bassista Justin Biggs che hanno lasciato la band nel 2017. Ma in generale l’album non ne ha risentito in negativo, visto che i Descend si rivelano dei maestri nell’unire diverse sezioni all’interno delle canzoni e dare ad ogni parte un’impronta unica attraverso l’uso della batteria. I brani vanno da un minutaggio di sette minuti e mezzo e aumentano in modo crescente fino alla suite finale di dodici minuti. Ogni canzone riesce a distinguersi abbastanza bene per via della buona qualità del songwriting, sopra la media.
La prima canzone, “Blood Moon”, è di piacevole impatto, con una sezione ritmica serrata, variopinta anche da intermezzi acustici e più tranquilli, in pieno stile Opeth. I Nostri non hanno mai nascosto una grande ammirazione per la band di Mikael Åkerfeldt, per altro concittadina. Il sound dei Descend si costruisce proprio intorno a loro, riprendendo molte caratteristiche della fase “Ghost Reveries”, ed in particolare in questa canzone si percepiscono anche dei rimandi ai recenti In Mourning, altra formazione svedese, per via del riffing melodeath. Scorrendo nella successiva “The Purest One”, la band continua a mescolare gli stessi elementi con l’aggiunta di voci femminili che si uniscono al clean di Nima Farhadian L. per un duetto dalle sfumature gotiche prima di dirigersi verso una direzione più death metal. C’è un tocco più pesante in “Lily”, il primo singolo di nove minuti dall’album che inizia con una sezione black metal e costruisce un’atmosfera più pesante e malinconica che mancava alle canzoni precedenti. Nella seconda parte viene anche lasciato molto spazio alle chitarre di Andreas Lindström e Alexander Wijkman che ci deliziano alternandosi con degli assoli. Le ultime due canzoni (le più lunghe), rimescolano un po’ le carte in tavola e rappresentano tra i migliori momenti dell’album, molto ben curate, con momenti sorprendenti e la title track in particolare presenta alcuni dei migliori riff di chitarra dell’album.
È evidente la cura per i dettagli e l’ispirazione nei brani che hanno messo i Nostri per la realizzazione dell’album che tutto sommato rimane gradevole e ottimamente prodotto peraltro. Tuttavia la band fa ancora fatica ad emergere in quanto a personalità, preferisce andare sul sicuro proponendo un sound già preso in prestito da tantissime altre band loro colleghe. Giunti al terzo album ci si aspettava qualcosa in più, quel definitivo salto di qualità che avrebbe fatto passare il gruppo da una semplice imitazione ad autentico, cosa che invece non è ancora avvenuta.