Diciamocelo chiaro e tondo: diventare di culto nell’underground è cosa che riesce a pochi. Tutti sono partiti da lì (a meno di raccomandazioni dai piani più alti, ma questi sono altri discorsi), ma tutti hanno prese strade diverse: chi non è riuscito ad emergere ed è soffocato nelle sue sabbie mobili; chi ha sfondato e ora sguazza alla luce del sole tra fama e successo (perdendo in buona parte la stima di quelli di sotto), meritatamente o “adeguandosi”; e chi invece ha preferito rimanere nell’underground, per coerenza stilistica e no. Ecco, di questi ultimi parliamo, e oggi abbiamo scelto un caso estremo.
Estremo perché non c’è altro modo di definire così i Crown of Autumn: tre album (con questo “Byzantine Horizons“, oggetto di recensione) in vent’anni. Consensi tantissimi, popolarità ridotta, pubblicità ancora meno. Ma a loro va bene così, e anche a noi diciamo: una band di questa caratura (one-man band prima dell’allargamento permanente a quattro membri per quest’album) non è di facile comprensione, come si suol dire non è per tutti. Così come il genere dei Crown Of Autumn: una miscela di heavy, dark, gothic, death, thrash, progressive, il tutto condito da tre voci differenti. Al growl del mastermind tuttofare Emanuele Rastelli si aggiungono le voci maschili in pulito di Gianluigi Girardi e quella femminile di Milena Saracino, già presenti nel precedente album della band e ora membri stabili come abbiamo già detto.
Il titolo dell’album e la copertina sono già un antipasto di ciò che i nostri quattro portabandiera hanno confezionato per noi: 45 minuti di viaggio nel tempo. Un viaggio nel tempo che ci trasporta nell’epoca bizantina, in mezzo a chiese sfavillanti di mosaici dorati, in costante bilico tra Oriente e Occidente: ascoltare questo album è come fare un giro per la Costantinopoli dell’impero bizantino. Ma non la Costantinopoli prossima alla conquista del 1453: la Costantinopoli del periodo d’oro dell’anno Mille, l’apogeo della civiltà bizantina prima di una lenta discesa nell’oblio. “Byzantine Horizons” risponde ai canoni di quest’epoca: elegante ma al contempo vivida come i mosaici ravennati, ci teletrasporta in un’atmosfera ai limiti del soprannaturale, sospesa in un limbo in cui può esprimersi senza timore di venire etichettata in qualcun modo (ma con tre album in due decenni non penso che il giudizio esterno possa benché minimamente scalfire le certezze di Rastelli & Co.). Ma ora basta parlare, addentriamoci nella Cattedrale di Santa Sofia.
“A Mosaic Within” apre le porte della cattedrale e già fornisce un quadro generale del nostro viaggio. Le tre voci si presentano in tre contesti differenti: su dei riff taglienti e doppia cassa si staglia il growl graffiante di Rastelli, il chorus è affidato a Girardi mentre la voce di Milena viene accompagnata da dei giri melodici azzeccatissimi. Ma non pensate che i compiti siano equamente e schematicamente divisi, perché nel corso dell’album verrete smentiti: la canzone è spezzata a metà da un interludio strumentale molto evocativo dalle melodie sognanti, che fanno da sottofondo alla ripresa della canzone vera e propria, col riff portante. Opening track di alto livello. La canzone sfuma nella successiva “Dhul-Qarnayn“, il nome con cui nel Corano viene chiamato Alessandro Magno: la solennità e la maturità con cui il brano è composto sembrano quasi cercare di omaggiare al meglio il leggendario condottiero macedone. Una trama di violoncello, rintocchi di pianoforti e dei riff felpati su cui Milena e Gianluigi creano il pathos giusto per l’esplosione del chorus e del growl di Emanuele: l’assolo centrale alza il livello per poi cederlo alle due voci maschili, con la voce in pulito ci guida alla fine del brano, tra bridge e ritornelli. Piccola chicca: confrontate il violoncello da 0.55 a 1.10 con il bridge in pulito di Gianluca da 3.07 a 3.22. Stessa musicalità, stessa intonazione, ma con strumenti diversi: quindici secondi di magia.
Le successive “Scepter and Soil” e “Cyclopean” ritornano su binari classici: la prima gioca sull’alternanza tra le sezioni più groove e tirate, dove dominano i maschi, e le parti semiacustiche in cui la Saracino fa da padrona incontrastata, prima di un’inaspettata accelerazione finale. La seconda rappresenta un capitolo molto particolare per i Crown of Autumn, dato che per questa traccia hanno pubblicato il loro primo video ufficiale. Particolare perché gioca sul duetto “pulito” Girardi-Saracino, modellando una traccia lineare ma elegante ed efficace. Queste due tracce più standard e simmetriche (per struttura più che altro) anticipano i tre minuti di liturgia, doverosi in una cattedrale come Santa Sofia: “Lo Sposo dell’Orizzonte” cantata principalmente da Milena in italiano, inglese e latino, è una sorta di “Dhul-Qarnayn” sotto forma di preghiera, tanto è dolce, velata, solenne e intima. Le chitarre e l’elettronica si fondono insieme in una miscela che riesce a creare un’aura di solennità senza l’utilizzo di una orchestra; nota di merito, soprattutto in questa canzone, all’utilizzo dell’elettronica, mai sopra le righe, mai banale, a dimostrazione di come uno strumento così troppo spesso bistrattato possa avere il suo ruolo.
La seconda parte del disco si apre come meglio non si potrebbe, con il riff abrasivo di chiara matrice thrash di “Everything Evokes” che ci riporta sulla terra, di prepotenza. Melodia, evocatività, cattiveria si miscelano ancora insieme, perché se il riff portante è ha da puro headbanging e le strofe sono ruggite dal growl eccellente di Emanuele, il ritornello di Milena è altamente cantabile. A spezzare il ritmo ci pensa un interludio elettronico dai toni ambient, prima della ripresa del chorus per il gran finale. Una delle tracce più furiose e cattive della carriera dei Crown of Autumn, ma manco a dirsi un centro pieno. Questo disco è un ottovolante di atmosfere: “Walls of Stone, Tapestries of Light” ci accoglie con dei giri di chitarra morbidi, dai tratti malinconici, prima di alzare il livello al minuto e mezzo e non scendere più. Mai come in questa canzone il basso è presente e detta i ritmi, e divide la palma di miglior performance con Milena, la cui voce è dolce e pulita come non mai. Con “Whores for Elusis” si ritorna su territori più thrasheggianti, con una linea di basso che ricorda i Megadeth dei tempi di “Symphony of Destruction” e una canzone meno solenne delle precedenti, ma non per questi meno interessante, con il growl di Rastelli sugli scudi e ben coadiuvato da Gianluca.
Siamo arrivati all’ultima parte del disco, e proprio quando la stanchezza potrebbe iniziare a farsi sentire… BAM! Ancora una volta i Crown of Autumn si giocano una delle loro carte migliori, “Lorica“: una successione di riff graffianti e di break acustici alternati fra loro, a cui segue anche un’alternanza delle voci. Probabilmente uno dei brani migliori del lotto, i momenti acustici sono perfettamente inseriti nelle parti più aggressive senza repentini cambi di tempo e rallentamenti improvvisi. Se dovessimo fare una classifica dei brani, di sicuro “Lorica” lotterebbe per il primato. “Roman Diary” è la traccia più breve del lavoro e conferma quanto di buono fatto finora, anche perché aggiungere qualcosa di ulteriormente nuovo sarebbe francamente impossibile. Il viaggio nella cattedrale di Santa Sofia sta giungendo al termine, ed ora siamo arrivati all’ultima sala: “Our Withering Will” trasferisce il concetto di ballad anni ’80/’90 ai nostri giorni: la violenza è un lontano ricordo, ora a parlare e a cantare sono le melodie e le voci in pulito ad accompagnarci alla fine della liturgia. Dopo cotanta aggressione, è il momento della riflessione, della pace interiore.
Un minuto di canti gregoriani ci accompagna alla fine del nostro viaggio nella Cattedrale di Santa Sofia e nelle terre bizantine tanto decantate dai Crown of Autumn. Un viaggio ricco di storia e di spunti, e soprattutto di buona musica: se per sette, otto anni di attesa si viene ripagati in questa maniera… ben venga! I Crown of Autumn ancora una volta confermano le loro grandissime qualità, e chissà che con una formazione stabile non inizino un piccolo tour a supporto di questo piccolo gioiellino. Storia e buona musica: che volete di più?