CATTLE DECAPITATION – Death Atlas

by Chiara Simonetta

Il 2019 si chiude con il grande ritorno dei californiani Cattle Decapitation, storica band del panorama death/grindcore, che lo scorso 29 novembre ha rilasciato il proprio ottavo full-length, “Death Atlas”.

Prima di concentrarci sull’album, facciamo un breve riepilogo sulla storia della band. I Cattle Decapitation nascono a San Diego nel 1996 e debuttano l’anno successivo con il demo “Ten Torments of the Damned”; il loro primo full-length è “Homovore”, del 2000. Come possiamo ben notare dai titoli e dai testi dei brani, la band si pone in aperta e brutale polemica contro l’abuso e il maltrattamento degli animali e lo sfruttamento dell’ambiente. Pionieri di ideologie animaliste, ritraggono scenari utopici, apocalittici e catastrofici, dove in una realtà capovolta è l’uomo ad esser vittima di una violenza inaudita e al limite dell’estinzione. Frequente l’immagine della distruzione del pianeta e dell’estinzione di massa, che, per quanto possa parere agli occhi (e alle orecchie) di tutti uno immaginario fantascientifico inverosimile, vuole spingerci con forza a una profonda riflessione sulle condizioni precarie del nostro pianeta e su temi etici di importanza e attualità non irrilevanti.
Dal 2015, anno di pubblicazione del loro ultimo full-length, “The Anthropocene Extintion” – uno dei loro lavori meglio riusciti – si sono fatti attendere fino a pochi mesi fa, con un album pazzesco, sulla stessa linea della produzione precedente: “Death Atlas“.

Fin da subito, al primo ascolto, si rimane molto colpiti da questo lavoro, a partire dall’intro, “Anthropogenic: End Transmission”, che, decisamente suggestiva e d’effetto, genera curiosità e suspense negli ascoltatori. Il brano appena successivo non delude: ha una carica esplosiva, ricalcando perfettamente lo stile che caratterizza dalle origini la band. Invariata anche la performance vocale di Travis Ryan, con la sua capacità unica di giocare sulle variazioni tonali pur sempre restando su scream e growl. Singolari i due intermezzi, “The Great Dying” e “The Great Dying Part.II” che, richiamando l’intro, tratteggiano il leitmotiv dell’album intero e mettono in pausa per poco più di un minuto la carica devastante di riff aggressivi e blastbeat di tutti gli altri pezzi.
Tra i brani si fanno apprezzare maggiormente, “Bring Back The Plague”, a metà dell’album, e “Time’s Cruel Curtain”, che colpisce per l’intro sorprendentemente melodica e di chiara influenza black; posso dire che soprattutto questo tratto distingue quest’ultimo album dalla produzione precedente, ossia la presenza costante di motivi più melodici e per certi versi drammatici, che conferiscono pathos e una maggiore intensità emotiva.
In conclusione, non si può che dare un giudizio positivo: un album potente, aggressivo, piacevole da ascoltare.
I Cattle Decapitation dimostrano ancora una volta di essere capaci di superarsi ulteriormente e di riuscire nello sforzo di trasmettere un messaggio etico estremamente attuale e importante.

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