Il supergruppo estremo più chiacchierato del momento (e con momento intendo più o meno gli ultimi quindici anni) è tornato. “The Arrow of Satan Is Drawn” è il nuovo disco dei Bloodbath e, mettiamo subito le mani avanti, non smuoverà dalle proprie posizioni né i detrattori che auspicavano il ritorno di colossi come Åkerfeldt o Tägtgren, né coloro che hanno apprezzato la prima prova di Nick Holmes su “Grand Morbid Funeral”.
Beh, più o meno: l’operato del Vecchio Nick non si discosta da quello di quattro anni fa, con questo cantato molto grezzo e rauco, ben lontano dal tipico growl; il problema (se così vogliamo chiamarlo, perché non si tratta assolutamente di un brutto disco) è il resto. I Bloodbath del 2018 presentano un nuovo ingresso in formazione, ovvero Joakim Karlsson dei Craft: il suo influsso è molto evidente nella traccia di apertura, “Fleischmann“, che presenta un taglio decisamente più oscuro e malvagio rispetto alla band sentita finora. La successiva “Bloodicide“, sicuramente ben metabolizzata da molti prima dell’uscita, trasforma i Bloodbath in un super-supergruppo, con nomi di prim’ordine come Jeff Walker, Karl Willetts e John Walker impegnati nel ritornello; “Wayward Samaritan“, invece, ci dà di che scapocciare su improbabili tempi dispari (ma niente di troppo complicato) e un andazzo divertito e divertente.
Quest’ultimo aspetto, il mood un po’ scanzonato e scapestrato, è un po’ la costante di un disco che si mantiene in equilibrio tra un death ‘n’ roll ignorante, da sparare ad alto volume, e il solito buon death metal vecchia scuola con cui gli svedesi ci hanno abituati, sia esso ad alta velocità o in forma di mid-tempo schiacciasassi. Ci eravamo però lasciati, più in alto, con il problema del disco, “il resto”. Cosa c’è quindi che non va su “The Arrow of Satan Is Drawn”? Le tracce, per quanto godibili, lasciano meno il segno rispetto allo scorso lavoro, almeno sul sottoscritto. Si fatica un po’ a collegare titoli e canzoni, a parte gli episodi su citati e qualcos’altro come la conclusiva e bella “Chainsaw Lullaby“, ma l’impressione è quella di un disco forse di passaggio, sicuramente valido e che si assesta su livelli sì buoni, ma non altissimi come ci si aspetterebbe da una formazione con un curriculum collettivo simile.
Il consiglio è comunque quello di ascoltare una, due, dieci volte quest’album, perché comunque si tratta di un bel lavoro: la pecca è che, forse, si “limita” a un livello qualitativo standard per una band del genere: ovviamente già alto di per sé, ci mancherebbe, ma comunque standard.