Partiamo già dal presupposto che non conoscevo questi Beltez, se non per la copertina che mi è passata davanti svariate volte sui social. Già dall’artwork avevo dedotto che sarebbe stato qualcosa che dovevo ascoltare e che sarebbe sicuramente rientrato nelle mie corde (e così è stato, fino ad un certo punto).
Partiamo con l’intro: “In Apathy and in Slumber“, sicuramente già dal primo ascolto, questa intro incute timore, malvagità e una rappresentazione musicale classica da film horror. Già da qui parte tutto a meraviglia.
“The City Lies in Utter Silence“: Sicuramente una partenza di grande impatto con una batteria e riff di chitarre che corrono all’impazzata, condite da una voce piena di odio fino all’ultimo respiro. Ma ecco il cambio ritmico “ammorbidito” nel brano. A 3 minuti e 25 secondi ci inoltriamo nei Beltez più melodici e meno ritmati, con le sonorità in background che esplodono del tutto e prendono pieno spazio all’interno del brano, accompagnate successivamente da dei cori che sembrano un eco proveniente da lande lontane, epiche e sognanti. In seguito si ricalca il tempo malato dell’inizio, con una ripartenza repentina della ritmica e della voce, che si lascia godere in tutti e per tutto per la grande potenza. Il brano scorre facilmente, fino a quando non notiamo che mancano ancora più di 5 minuti al termine (!). L’entrata in primo piano della chitarra, fa si che il brano risulti successivamente di maggior spessore e raffinatezza accompagnandoci e dirigendoci verso la fine.
“Black Banners“: Dopo i rintocchi di campana che portano alla fine di “The City Lies In Utter Silence” , i nostri Beltez ripartono senza sosta e senza riprendere fiato, all’interno di un brano più cadenzato dove la voce fa da padrona. Una voce ricca di disperazione, sempre sulla stessa lunghezza d’onda, successivamente condita da dei cori “pseudo epici” che avevamo ascoltato anche nella precedente traccia. Bello il connubio di tre o più voci, che dà più colore e rende il brano più compatto, facendoci entrare questa volta davvero nella parte più epica di questa band. Un brano più compatto, strutturato, completo e sicuramente di maggior spessore della opening track.
“A Taste of Utter Extinction“: Qui invece la situazione sembra ribaltarsi, perché tutto parte da un mid tempo e quando meno te l’aspetti vieni assalito da i riff di chitarra e batteria in perfetta simbiosi, che ti assalgono come uno scontro frontale. Riparte la voce, che alla quarta traccia (della durata di 9 minuti e 50!) già inizia un po’ a stancarmi, ripercorrendo quel che è già stato detto e ascoltato. Melodicamente niente da dire, molto bello e accattivante, anche se avrei lasciato maggior spazio alle parti strumentali, mettendo in disparte la voce per almeno altri 5/6 minuti.
“The Unwedded Widow“: Questo è un pezzo che mi ha preso sin da subito, con un mid tempo ben calibrato tra batteria e chitarre. La ritmica fa il suo sporco lavoro in questo brano e verrebbe da ascoltarla a loop. Successivamente il brano si impossessa di un crescendo, grazie alla doppia cassa che entra in azione. Tutto riparte come le precedenti: dalle melodie sognanti della band, ci ritroviamo al cospetto di uno stop and go, che amalgama tutta la band e la voce nella sua massima durezza, ma che oramai non regala più grande impatto, avendo già ascoltato lo stesso “magheggio” nelle tracce precedenti.
“From Sorrow into Darkness“: Quando è partita mi sono detto “ecco il pezzo che mi farà impazzire di questo album”. Niente da dire, di una maestosità eccelsa. Una melodia leggera, sognante, raffinata, ovvero la classica traccia che ti fa volare verso orizzonti lontani. Ma poco dopo mi rendo conto che mi trovavo al cospetto solo di un “interludio” che giungeva già alla fine.
“A Grey Chill and a Whisper“: Dopo il momento sognante, sicuramente le parti strumentali e la voce acquisiscono maggior impatto sull’ascoltatore. Questo è proprio un brano di quelli che ti ricordi, che ti viene spiattellato in faccia senza rimorsi. Ci sono svariate influenze all’interno di questo pezzo sin dalla partenza. Ci ho sentito molto degli Ondskapt e dei Watain, sicuramente il brano che più mi è piaciuto dell’album.
“I May Be Damned but at Least I’ve Found You“: La malinconia in musica, l’oscurità e l’atmosfera che ritrovi all’interno di un luogo a te sconosciuto, questo è stato ciò che mi ha dato questo brano. Un viaggio musicale in tutto e per tutto all’interno di mondi sconosciuti, epici, decisamente degni di essere esplorati con queste melodie che partono in sordina sino ad arrivare alla parte ritmica che passa rafforzandosi. Ottima la partenza della band con i cori epici a noi (oramai) tanto cari, poi surclassati dalla voce che bene conosciamo e che non tende a cambiare di una virgola tutto ciò che ci ha raccontato sino ad ora. Potrei completamente affermare che se la band non avesse deciso di immettere tale cori, il tutto sarebbe risultato molto più oppressivo, pesante (quasi come un obbligo) e decisamente monotono.
“We Remember to Remember“: La partenza della traccia è stata sicuramente al di sotto delle aspettative, visto l’energia e il calibro a cui ci avevano abituato nelle tracce precedenti. Certo, meglio che la solita traccia con “fermi-partenza-via”, ma mi sarei gustato volentieri una bella martellata nelle gengive per chiudere in bellezza (magari senza voce), dando libero arbitrio alla band. Il pezzo risulta un mid tempo senza variazioni che avrei messo all’interno dell’album come secondo interludio, ma ovviamente è solo un punto di vista strettamente personale. Dissolvenza di quasi un minuto per una closing track dall’amaro in bocca.
Adesso che mi sono inoltrato nel mondo dei Beltez, posso sicuramente affermare che non ho ascoltato e vissuto sulla mia pelle un disco che mi rimarrà impresso. Sono totalmente sicuro che sia stata la voce a far decadere tutto il mondo sonoro che mi ero immaginato precedentemente all’ascolto. Purtroppo è proprio questo il punto, la voce stanca, vuole a tutti i costi essere pungente, ed invece alla lunga risulta insopportabile, stancante, ripetitiva e monotona. Determinante anche la lunghezza dei brani, da voler giungere alla fine quando invece siamo solo a neanche metà. Do un 5,5 a questo disco per l’impegno dei Beltez. Sicuramente per il lavoro che hanno fatto e anche per la scelta di una chiarezza sonora cosi bella e potente (spesso inesistente nell’universo del black). Una possibilità si da a tutti, ma mi aspetto di meglio da loro, come brani di una durata ridotta, e sicuramente meno voce presente in essi.