Non è facile. Non è affatto facile.
Recensire uno dei gruppi cardine della propria formazione musicale spesso si rivela essere un bell’incubo. Bello, ma pur sempre un incubo.
Andiamo con ordine. Tornano dopo quattro anni da “At War With Reality”, dall’album che ha segnato il loro tanto atteso ritorno sulle scene dopo tanto tempo, gli At The Gates, una delle band più importanti (se non la più importante) del panorama death metal svedese e nordico in generale, con questo “To Drink From The Night Itself“. Parto con l’importante premessa, importante per chi legge, che non mi abbandonerò ad una recensione filosofica, faziosa o Tolkieniana, inteso come descrizione minuziosa del dettaglio: andrò prevalentemente di cuore e di pancia. Sono fatto così.
Il death metal negli ultimi anni mi ha un po’ lasciato perplesso. La noia mortale degli In Flames, l’elettro-movimento dei Dark Tranquillity ma anche, tra gli altri, i Cannibal Corpse. C’è death metal e death metal. Sicuramente, per ciò che mi riguarda, ho preferito il technical death al melodic death. E gli At The Gates confermano questa mia preferenza.
No, un nuovo “Slaughter Of The Soul” non ci sarà. Mai più, forse. I tempi cambiano, e con loro le formazioni, lo spirito, i gusti. Con “At War With Reality” avevamo ben accolto nuovamente un album in studio degli ATG, senza forse soffermarci troppo sul livello compositivo – stilistico, ma anzi apprezzandone l’apparente ritorno al death diretto tipico della band. Con questo nuovo lavoro, invece, notiamo un certo appiattimento della situazione, nonostante i quattro anni passati tra un album e l’altro.
C’è un altro fattore importante da non sottovalutare: l’uscita di Anders Björler, storico chitarrista del gruppo, il quale lascia spazio alla vecchia conoscenza della band Jonas Stålhammar. Altro giro, altro regalo. Sicuramente i Nostri perdono un pezzo importante a livello artistico e creativo.
Il disco è tutto ciò che nel 2018 ci si aspetta da una band come gli At The Gates: scariche violente di sei corde ruvide e dirette, batterie al galoppo e nulla di nuovo rispetto a ciò che si sente in giro ultimamente. Un album che non ti lascia particolarmente il segno, non ti fa girare la testa per ascoltare attentamente se stai facendo altro e che soprattutto sembra parecchio eterogeneo. Ispirato al saggio “Estetica della Resistenza” del discusso scrittore Peter Weiss, questo disco vuole andare a coglierne l’essenza più struggente e poetica, rielaborando in musica un concetto di combattimento e lotta per la conquista della vittoria, del risultato finale. Sarò tagliente, ma penso che a quest’album sarebbe bastato un goccio in meno di filosofia, ed un litro in più di sano divertimento.
Sarebbe inutile, controproducente e sprecato parlare eccessivamente al passato: gli At The Gates sono stati e rimarranno per sempre una delle formazioni seminali per ciò che riguarda il melodic death metal per come lo conosciamo noi. Rimane un fatto importante, che contraddistingue i Pochi dai Molti: il rinnovarsi. Minimamente, anche solo per poche cose, il rinnovarsi rappresenta il vero completamento, la vera “vittoria della Resistenza” nei confronti del tempo.
Nota a favore sono la produzione ed il master finale, che si confermano punti sempre di alto livello per il quintetto svedese. Per riassumerla, un album che da una parte riesce a mantenere leggermente accesa la fiammella di un gruppo che ha dato tanto al metal, ma che dall’altra arranca aggrappandosi a concept politicisti abbastanza inutili. Sufficienza raggiunta e classico compitino svolto in classe per accaparrarsi la promozione.
Peccato.