I norvegesi Acârash ritorneranno sulle scene con il loro secondo album, “Descend To Purity”, il 29 maggio per Dark Essence Records. Formatisi appena nel 2016, il loro primo “In Chaos Becrowned” vide la luce due anni dopo; figlio di una strana unione fra Ghost e Watain di “The Dark Hunt”, il loro black metal assume connotazioni vagamente doom e decisamente black n’ roll. Quest’ultimo lavoro non si discosta granché dal primo, aggiungendo forse qualche fonte d’ispirazione in più al composto. Ci troviamo di fronte a trentanove minuti di musica per un totale di otto canzoni.
Mettere le mani avanti mi viene spontaneo, ormai, perché trovo sia necessario giustificare quando un album non mi piace, esattamente come quando, al contrario, mi piace. Conoscete a memoria i miei metri di giudizio (che non starò qui a ripetere). “Descent To Purity” mi ha annoiato, non tanto per questi richiami palesi a band che ho citato anche sopra, ma perché nel lungo andare ogni canzone assomiglia ad un’altra. Forse è sbagliato cominciare con i difetti prima dell’analisi individuale dei brani, ma serve a spiegare le mie ragioni. Tutto l’album è inquietante, quasi ritualistico, rabbioso quanto basta; non ci sono sostanziali cambiamenti di atmosfera né, tantomeno, grandissimi cambiamenti a livello di stile.
Procediamo allora con ordine. L’album si apre con la title-track, cinque minuti di black n’ roll che scorrono via tranquilli senza picchi di sorta; si sottolinea la bella linea di batteria che rappresenta il punto d’interesse del brano.
Segue “Satanic Obsession”, un brano che si potrebbe addirittura definire orecchiabile; bella la parte centrale e l’assolo che la segue.
“Desecrate. Liberate.” sfrutta un riff e un ritornello che rimangono in testa molto facilmente come suoi punti di forza; si segnala anche qui un assolo, oltre ad una breve parte di basso che richiama l’introduzione. Il solito Crowley spunta a sorpresa prima dell’ultimo giro di riff.
Forse la più interessante è “Goat, Skull, Ritual Fire”, dalla bellissima introduzione e quasi la più vicina al metallo nero; anch’essa usa un ritornello di facile assimilazione. Un altro bell’assolo distingue ulteriormente questa canzone del resto della massa; la lunga conclusione però dopo un po’ stona.
Anche “Below Ceremonial” è più infuocata, procede però in un pesante mid-tempo, nella conclusione lo abbandona per velocizzarsi. Elementi già sottolineati in precedenza ritornano anche qui, non aggiungendo pressoché nulla di nuovo al piatto.
La più lunga dell’album è “Three Knives”, pesantissima ma poco altro. Dopo il solito cambio riff e assolo a metà strada, c’è una piccola sorpresa: una sezione in cui chitarra e voce ci portano ad un doom che dona un pizzico di benvenuta varietà al tutto.
“Steel Hunter” si arricchisce di un bel riff serpentino e un cambio di velocità che per lo meno la salvano dall’oblio; niente di più.
Concludiamo le danze con “Red Stone Betrayal”, un riassunto di quanto ascoltato finora e di cui non si può dire granché senza ripetersi.
Sono sicura che a certi cultori del genere, o ai fan smodati di Ghost/ultimi Watain (nonostante io abbia amato infinitamente “The Wild Hunt”) quest’album piacerà parecchio. Ma manca tanto, manca troppo. Il problema nasce dalla difficoltà di distinguere una canzone dall’altra, seppur ci siano delle differenze che riescono a dividere l’album in due gruppi distinti: diciamo una zona “più black” e una zona “meno black”. I richiami ad altre band possono funzionare se si è fan delle suddette; grande assente è l’originalità che rende gli Acârash loro stessi. Per questo, non mi resta che rimandarli al prossimo album, nella speranza che questo sia solo un passo per raggiungere un obiettivo più alto.