Essendomi documentato prima di iniziare a scrivervi questa recensione, ho realizzato con mio grande stupore (e mi perdonino per questo) che questi Dodenkrocht non sono per niente dei novizi, e solo dio sa come sono riusciti a passarmi davanti, insieme ad altre centinaia di band, senza suscitare in me l’interesse che sto vivendo adesso ascoltando questo “The Dying All”. Il suono del gruppo è di chiara matrice black metal, e riesce ad amalgamare i suoni più forti a quelli melodici e malinconici. Trovo che il connubio e il gioco tra le chitarre e i vari cambi di tempo siano i due punti forti dell’album, riuscendo ad essere sempre inediti e mai stancanti. Sicuramente ci sono molti richiami ad altre band in questi brani, partendo dalla prima “God Never Spoke” che mi ha ricordato nelle parti più cadenzate i Carpathian Forest (escludendo la voce) e i Behemoth su alcune parti vocali ben scandite e di chiusura. Per non parlare poi dell’animo prettamente depressive black metal che viene totalmente fuori in momenti di “svuotamento”del brano, che ricordano molto i migliori Xasthur, Nocturnal Depression e Forgotten Tomb, dove la chitarra fa da padrona, accompagnata da una batteria contenuta ma pronta ad esplodere successivamente in una ripartenza ben studiata tra la ritmica completa e la voce, ripercorrendo la melodia iniziale tra rallentando e diminuendo. Le tracce passano veloci e non restano indifferenti, visto che il quartetto olandese sa rendersi sempre fresco e non risulta mai pesante e ripetitivo. Anzi, tornando a ciò che ho scritto precedentemente, i cambi di tempo sono proprio studiati benissimo, non risultano repentini da chiedersi il perché delle loro scelte, e riescono ad appesantire come un macigno ancora di più il tutto grazie a una voce che dalla bestialità e aggressività passa a parti di disperazione totale collegandosi a mid tempo che calzano davvero a puntino.
Vi metto subito in guardia dal non aspettarvi un disco alla Dark Funeral o alla Marduk vecchio stile o alla classica mitragliata black, perché qui siamo in un mondo completamente diverso. Se amate il black (bello melodico e ben prodotto) che sfocia in parti depressive e riprese incalzanti da non sembrare quasi la stessa band, allora è l’album che fa per voi. Ci son delle tracce che durano anche dieci minuti di cui ho letto anche punti di vista pessimi, ma che a parer mio invece riescono ad essere davvero compatte e complete. Quelle tracce che non sai cosa aspettarti al lungo andare, avendo già capito sin dall’inizio che non ti troverai al cospetto di un irrefrenabile doppia cassa o una batteria al limite della distruzione sonora (a parte nell’immensa “Before The Grey”). In fin dei conti, a parte questa traccia che vi ho appena segnalato, il quartetto sembra essere devoto per gran parte al depressive in più momenti, il che non guasta assolutamente, visto che la band sa gestirsi al meglio, risulta pulitissima nei cambi di tempo e la voce riesce a fare il suo lavoro degnamente. Sicuramente andrò ad ascoltarmi anche i vecchi lavori, per capire il cambiamento e la crescita stilistica, ma sono completamente sicuro che non passeranno inosservati di nuovo, e ora sul mio desktop vige il logo della band come sfondo.