Giunge al terzo album la one-man band inglese Arx Atrata, dietro cui si nasconde il mastermind Ben Sizer. Artefice di un bel atmospheric black metal, alle volte sporco di DSBM più nella musica che nei testi, Arx Atrata s’ispira alla natura e all’esistenzialismo; coloro che amano gli Agalloch e gli Ashbringer troveranno sicuramente pane per i loro denti.
“The Path Untravelled” è un album che lascia leggermente interdetti. Cominciamo dai lati positivi: è un buon album, di piacevole ascolto per gli amanti del genere, bellissimi certi richiami epici che alle volte potrebbero fare venire in mente altri grandi nomi oltre a quelli già citati (che vedremo più tardi). Al negativo, ci aspetta una produzione non del tutto curata: mentre i vari strumenti si sentono molto bene, la voce si perde nel sottofondo delle canzoni, quasi amalgamandosi al resto. Questa sembra essere effettivamente una cosa voluta, dato che, in generale, alla fine non ci discostiamo molto dai precedenti lavori di Arx Atrata, “Oblivion” (2013) e “Spiritus In Terra” (2016). Anche in queste produzioni, la voce viene considerata un mero dettaglio. Sfruttando poi brani piuttosto lunghi (cosa usuale per l’artista), s’incappa spesso in un senso di ripetitività che finisce con il distrarre. Un paio di passi falsi che quindi potrebbero condannare un album intero.
Passiamo quindi all’analisi brano per brano: la bellissima strumentale d’introduzione “MCMLXXVII”, di una malinconia profonda nonostante l’allegro cantare degli uccelli, vede come protagonista la chitarra acustica. Già da qui i graditissimi richiamo all’epic danno spazio alla chitarra elettrica, gelida e acida.
“To Be Reborn” comincia senza staccarsi dal brano precedente, di cui si sottolinea un’ottimo lavoro di tastiere a creare un’atmosfera maestosa che, personalmente, fa venire in mente un nome solo: Emperor. Bellissima l’esplosione di rabbia pura, seppur in mid-tempo, dopo un momento di apparente calma che sembra segnare la fine del brano.
La prima mazzata di otto minuti è “An Undying Verse”, leggiadra come una nevicata a più riprese, ma senza tradire la violenza tipica del black. Comincia qui una certa ripetitività, come ad esempio con un altro momento più calmo prima della ripresa del brano, verso la metà. Per fortuna la chitarra si libra in riff che variano dallo speranzoso al sinistro, dando quel tocco di varietà che permette il proseguimento dell’ascolto.
La title-track è la prima canzone da dieci minuti e raggiungiamo la metà album: è qui che un vago sapore DSBM viene a mostrarsi. Con un’introduzione di violini tristi, intercede poi molto lenta; si unisce al tutto un pianoforte quasi disperato, suonando una nota alla volta. Molto interessante la parte centrale del brano, un momento di distacco dall’uniformità che si è raggiunta anche qui. Incendi nerissimi e momenti di riflessione si susseguono, fino al delicatissimo finale.
Altri otto minuti vengono dedicati ad “Elmet”: un’altra dolcissima introduzione di chitarra elettrica porta ad una terribile consapevolezza una volta che la canzone comincia per davvero. C’è una formula, e quella formula è stata usata per tutti i brani. Sfortunatamente si nota. Non c’è molto da dire oltre a qualche dettaglio davvero gradevole, fra cui un piccolo assolo di pianoforte e una voce in pulito quasi rituale nella seconda metà del brano. Un plauso alla conclusione acustica.
“Brethren and Betrayer” non aggiunge nulla di nuovo, a parte il momento quasi idilliaco a un minuto dalla conclusione che veleggia su toni speranzosi e sognanti.
Gli ultimi dieci minuti sono affidati a “The Wrath”, che comunque conquista il premio per brano più lungo dell’album. A differenza del resto, comincia già con l’acceleratore al massimo, ma tanto basta. La ripetitività fa stramazzare un brano altrimenti buono, tutto purtroppo è già sentito, anche il finale.
In definitiva, “The Path Untravelled” ha probabilmente il più grande dei difetti: niente brilla davvero dal resto. Risulta tutto così ben amalgamato che non si può eleggere nessuna canzone come la più bella. Ed è un vero peccato, perché è impossibile buttare via del tutto quest’album. Pochi passi falsi finiscono con il condannare un album altrimenti stupendo se ci fosse stato il coraggio di osare solo un poco di più. Certo, ci sono dei dettagli da tenere in considerazione, delle citazioni di tutto rispetto, ma purtroppo non è abbastanza. Mi auguro che il prossimo album possa liberare Arx Atrata da questa tremenda formula in cui è incappato.