Ritornano con il loro secondo album i britannici Superterrestrial. Dediti ad un black metal con influenze dark ambient synth sembrano volerci portare nello spazio più profondo e sconosciuto; da qui il titolo “The Void That Exists.” Come ispirazione per la loro musica vengono citati i Darkthrone e i Wolves In The Throne Room per lo spettro black, John Carpenter per l’aspetto atmosferico e synth; influenze che si sentono con riff ai limiti dell’ipotermia e momenti che rasentano il noise. Da non trascurare ovviamente è l’essenza ambient che caratterizza la loro proposta. Degno di nota è il cantato, caratteristica che unisce ogni brano: grida ai limiti dell’umano rilegati al sottofondo, come una bestia misteriosa che emerge dalle oscurità più recondite dello sconosciuto
Non ci sono molte differenze con la prima uscita, “Ocean of Emptiness”: lo stile dei Nostri sembra già ben solidificato. Composto di sette brani fra i quattro e i dieci minuti di lunghezza, infiliamoci una tuta spaziale e scendiamo nell’oblio extraterrestre di “The Void That Exist.”
La prima canzone che ci accoglie è “Cannibal Coronal Mass Ejections”: una sirena inquietante ed abissale apre ad un black gelido, a tratti dissonante nella sfida fra la chitarra portante e quella ritmica. Il ritmo cambia continuamente, portando con sé un senso di urgenza e ansia, come se fossimo spinti a rimanere sempre sull’attenti per l’arrivo di una minaccia. Il lavoro di batteria di Tom Logan salta subito all’orecchio, risultando splendido e molto interessante. Dopo un breve momento dove parla solo la chitarra, si rallenta con un ritmo molto cadenzato e da headbang assicurato. Questo segmento viene portato fino alla conclusione del brano, di nuovo affidato alla sirena dell’inizio.
“Collapsar” comincia con un pianoforte inaspettato, di cui le chitarre seguono le note; la canzone poi esplode in una fiammata nerissima. I ritmi si alternano fra veloci e lenti, lasciando spazio al ritorno del piano a metà dello svolgimento. Il finale, rabbiosissimo e velocissimo, s’interrompe all’improvviso, lasciando interdetto l’ascoltatore. Non c’è altro da aggiungere.
Una chitarra sfoderata al massimo della velocità apre “Tidal Disruption Event”, svolgendosi in un black sporco di post e death, in mid tempo; durerà solo pochi secondi prima di riprendere le folli velocità finora ascoltate. Una breve interruzione dà spazio finalmente al dark ambient: i sintetizzatori disegnano un ambiente oscuro, misterioso, quasi acquatico e disseminato di rumori inquietanti, a cui si aggiunge la chitarra a far da filo conduttore al brano. Il black che ne segue è folle e da headbang, disseminato di cambi di tempo e momenti appena più leggeri.
Elementi noise introducono “Bok Globule”, trascinandoci quasi in una navicella spaziale alla deriva; seguono cupe note di sintetizzatore alternate ad altre stridenti ed acute. La batteria sfiora il doom per un attimo, prima dell’arrivo di un black metal che spinge l’acceleratore al massimo. L’improvvisa conclusione porta quindi a dover segnalare un “non c’è altro da dire”, relegando il brano allo status di filler nonostante l’attesa aggiunta dell’elemento dark ambient.
Con “Aphelion” si arriva al punto in cui tutte le parole sono state già dette per le canzoni precedenti e non viene aggiunto nulla di nuovo alla proposta; un vero peccato.
“Heliacal Rising” parte con una batteria molto bella, che fa sperare in qualcosa di differente; di nuovo si è lasciati delusi. La metà brano si caratterizza di un momento in cui parlano i sintetizzatori, stridenti e oscuri, anche qui nulla di nuovo. La conclusione è affidata ancora alla batteria, lontana e in sottofondo, mentre il sustain allunga all’infinito l’inquietante effetto usato.
Tornano le chitarre per inaugurare l’ultimo lunghissimo brano, “Moreton Wave”: un malinconico mid tempo permette di tirare un meritato respiro di sollievo, ed è la malinconia stessa a fare da filo conduttore. Qui finalmente viene lasciato spazio al dark ambient, spaventoso ed inquietante come ci si aspettava anche negli altri brani. Finalmente si ha l’impressione di fluttuare nel nulla cosmico disseminato di pianeti e meteoriti; come mai questo sia accaduto solo nell’ultimo brano è una domanda senza risposta che sottolineo con grande dispiacere. Un’interruzione ancora improvvisa ci riporta al gelo nordico d’inizio brano, ancora inframmezzato da momenti più calmi e synth.
Il problema di quest’album è che pecca veramente molto di fantasia: alla fine le canzoni non si distinguono quasi affatto l’una dall’altra, se non per i vari riff lanciati al massimo di un black metal al permafrost. Si può accettare che i primi due album di una band formatasi nel 2017 non abbiano pressoché differenze, ma che la noia s’impadronisca dell’ascoltatore verso il quarto brano non è esattamente una cosa bella. Peccato, perché l’idea c’è ed è anche geniale, ma manca tutto il resto. Le ambientazioni ci sono, anche se decisamente troppo poche e veramente poco marcate: se l’intenzione è quella di trasmettere il senso di oppressione dello spazio enorme e sconosciuto che ci circonda, il bersaglio è stato mancato, anche se per fortuna non completamente. Il black metal, assolutamente di ottima fattura, non fraintendetemi, risulta addirittura soffocante viste le intenzioni dei Superterrestrial: non lascia abbastanza spazio all’altra caratteristica di cui i Nostri si fanno portavoce. Non mi resta che augurare che la prossima volta sia quella buona, visto che le premesse ci sono.