Alzi la mano chi non conosce gli Opeth. Probabilmente sono una delle band più famose e riconosciute del mondo metal, con il loro splendido progressive death. Hanno regalato al mondo del metallo album diventati capisaldi del genere, non serve nemmeno nominarli: immediatamente salteranno in testa titoli immortali. Nonostante il cambiamento di rotta verso del puro progressive rock di matrice anni ’70 (comunque di ottima fattura), ciò che è stato non si può cancellare. Nuove e future generazioni di metallari apprezzano e apprezzeranno i loro lavori, facendo diventare gli svedesi quasi una band di formazione, come per moltissimi di noi lo sono stati i Metallica o altri grandissimi nomi. Per chi scrive, inoltre, Mikael Åkerfeldt è il prototipo del cantante perfetto: il suo cantato pulito è meraviglioso, capace di trascinare l’ascoltatore nell’assoluta dolcezza o nella più profonda malinconia, e il suo growl è semplicemente perfetto, così tanto da sembrare naturale.
Dopo questo lungo preambolo, passiamo al dunque: una band di così grande importanza e peso non può non influenzare musicisti e amanti del genere. Da che mondo è mondo, le band più giovani spesso iniziano cercando di (passatemi il termine) imitarne un’altra, concentrandosi nello studio dettagliato di ogni riff, passaggio, melodia e quanto compone una canzone. Questo tedioso studio ha un pregio: è un momento di pura formazione, che insegna al musicista come nasce il metal, o il genere in osservazione. Quindi, i brasiliani Piah Mater sono sicuramente nati alla stessa maniera. Sono attivi dal 2010, e lo studio millimetrico di ogni composizione degli Opeth li ha portati a creare due album che sembrano essere letteralmente sfuggiti alla discografia della band più conosciuta.
Questo non può che portare inevitabilmente ad una miriade di pregi e difetti. Per come vedo la musica, mi aspetto da una band dell’inventiva che riesca a staccarla completamente dal gruppo di riferimento. Con i Piah Mater il mio precetto viene quasi completamente a mancare: come dicevo, il loro primo lavoro “Memories of Inexistence” (2014) è praticamente un prodotto degli Opeth. Non aiuta che Luiz Felipe Netto, alla voce e al basso, in certi momenti riesca a rassomigliare così tanto Åkerfeldt da avermi fatto seriamente dubitare di star ascoltando uno dei miei lavori preferiti degli svedesi. Mi sono quindi augurata che il secondo capitolo si staccasse da questa tendenza, sapendo che mi avrebbe portato a stroncarli. E invece, la cosa più assurda di questo “The Wandering Daughter” è che è veramente bello, nonostante tutto. Studiato nel minimo dettaglio, una produzione certosina, per quasi un’ora di progressive death metal devoto alla formazione svedese, che non stanca affatto.
Parliamo quindi del protagonista di questa recensione: sei composizioni fra i tre e i quindici minuti compongono “The Wandering Daughter”. “Hyster” è la sua introduzione: del vento leggero ci porta poche melanconiche note di chitarra elettrica, cui l’acustica ne fa poi da eco e accompagnamento. Si aggiunge una voce femminile eterea ed evocativa, prima della conclusione affidata a delle chitarre melodiche che ci portano a “Solace in Oblivion“. Esplode subito con un cantato in growl, districandosi fra momenti death e black metal. Il batterista Kalki Avatara mette qui in perfetta mostra le sue armi, con una batteria veramente esplosiva che a metà canzone darà spazio ad una parte quasi atmospheric black di ottimo pregio. La canzone si sviluppa fra vari cambi di tempo, interruzioni a sorpresa e splendide parti di chitarra melodiche. Da notare anche certi punti dove dei tappeti di suono impreziosiscono ulteriormente i dodici minuti di composizione. A differenza di “Memories of Inexistence”, c’è un piccolo passo avanti: in effetti un po’ di inventiva c’è, dimostrando che i Piah Mater quindi sono in grado di produrre qualcosa di loro, seppur ancora forse troppo reminescente degli Opeth. Comunque, segue “Sprung from Weakness“: anche questa canzone inizia subito veloce e aggressiva, aiutata dal cantato in growl. Anche qui la batteria fa chiara mostra di sé, accompagnando perfettamente i riff di Igor Meira costruiti su di essa. L’atmosfera cambia completamente trascinandoci in un mondo malinconico, costringendoci poi a ritornare subito dov’eravamo rimasti. La voce femminile ritorna ad accompagnare brevemente Netto, poi la canzone prosegue aggressiva portando l’ascoltatore ad un bell’assolo di chitarra. Una svolta più progressive stravolge la canzone in vista del finale.
La quarta canzone è “The Sky Is Our Shelter“, che ci trasporta subito in un’atmosfera oscura ma sognante, grazie a chitarra e batteria leggere e delicate. Il basso finalmente si fa notare come ottimo accompagnamento, volteggiando fra le melodie della sei corde. È quindi una ballad veramente deliziosa, che alterna anche qualche momento più scuro e progressive, una vera perla che risalta all’interno dell’album. “Earthbound Ruins” invece ci porta in tutt’altro mondo, ritornando a sfumature più rabbiose, con interessanti riff di chitarra. Per la verità la prima metà risulta abbastanza piatta nonostante i dettagli che la compongono, come i momenti di richiamo black. Dopo l’interruzione, la seconda metà torna melodica e misteriosa, dove si può bene notare l’ottimo lavoro di studio compiuto dal cantante sulla voce di Åkerfeldt, e anche la chitarra rievoca molto bene certi lavori presenti in particolare su “Damnation”. La conclusione invece ci riporta di nuovo a lidi più propri del death. Non certo la composizione migliore, ma comunque scorrevole nonostante i suoi difetti. L’album si conclude con i monumentali quindici minuti e venticinque secondi di “The Meek’s Inheritance“, dove la chitarra diventa protagonista nell’introduzione, prodigandosi poi in un bell’assolo. Continua aggressiva, mescolando cantato pulito e in growl; il primo cambio d’atmosfera sorprende dopo i primi cinque minuti d’ascolto, mantenendola ma scendendo in meandri più malinconici. Una brevissima interruzione ci porta ad una parte dal sapore atmospheric black, anche grazie al blastbeat, assumendo quindi sfumature minacciose. La canzone procede quindi portandoci attraverso diversi sentimenti e percezioni, riuscendo a non far pesare per niente una canzone altrimenti davvero lunga. Non si sprecano begli assoli e altri stacchi, ottenendo quindi un ottimo risultato.
Ad ascolto concluso, non ci vuole un genio per capire che se si è amanti degli Opeth, i Piah Mater non si può perderli. Suggerirei anche a chi vuole provare ad immergersi nei meandri del progressive death metal di tentare l’ascolto di “The Wandering Daughter”. Però, allo stesso tempo, spero vivamente che dal loro prossimo capitolo i brasiliani inizino a trovare la propria voce, e a distaccarsi dallo studio maniacale che hanno compiuto. Sono certa che le possibilità ci sono, e da loro potrei aspettarmi molto, ma molto di più. Comunque davvero un ottimo lavoro, di piacevole ascolto.