Nati dalle ceneri dei Windir, i Vreid propongono una mistura di vari generi musicali definito come black n’ roll, dove il black metal norvegese si fonde con sonorità anni ’70 e accenni di heavy metal anni ’80 per un risultato molto interessante. Attivi dal 2004, con “Lifehunger” arrivano al loro ottavo album in studio. Inoltre, questo è il primo uscito per l’etichetta Season Of Mist.
Quest’album non si discosta molto dalla discografia precedente, ma ogni canzone ha qualcosa da dire e si appropria di un posto dignitoso all’interno della scaletta. La produzione si apre quindi con l’introduzione “Flowers and Blood“, una strumentale con chitarre acustiche e tappeti di suono; queste prime sono un gradito ritorno che più volte arricchiscono l’album di nuove sfumature. Segue “One Hundred Years“, che inizia con chitarre in puro stile black metal, proseguendo su questa scia. I versi sono invece leggermente più epic, spezzando l’andazzo infernale. Un interessante intermezzo precede una parte di cori quasi solenni, con un’abbondanza di belle chitarre acustiche fino alla parte finale, che riprende in toto l’andatura dell’inizio. La title track ha un’introduzione di sola chitarra ben pesante e cadenzata, a cui si aggiunge in seguito la batteria. Una chitarra melodica precede poi la vera esplosione della canzone, caratterizzata da ritornelli black. A metà la canzone s’interrompe per poter permettere un cambio di ritmo prima di un bell’assolo e un finale nuovamente black metal.
Una piacevole parte di batteria introduce “The Death White“, seguita da un riff ipnotico, proseguendo perlopiù in questa maniera. Un’altra bellissima parte di chitarre acustiche impreziosisce la canzone prima di una parte di chiaro stampo epic. In “Hello Darkness” figura la partecipazione alle voci di Aðalbjörn ‘Addi‘ Tryggvason, direttamente dai Sólstafir: l’intro di chitarre inquietanti da spazio ad una canzone molto particolare che per certi versi ricorda un certo goth rock anni ’90. “Black Rites in Black Nights” è la canzone più lunga dell’album, che dà spazio a chitarre e batteria maestose e minacciose, incoronate da un bell’assolo iniziale. Probabilmente la più aspra delle proposte grazie al cantato più maniacale, ha anche una parte centrale dove il black prepondera. Un altro assolo ci riporta alla maestosità finale, quasi da marcia infernale. “Sokrates Must Die” è un inno black metal di tutto rispetto, sicuramente più leggera in certi tratti ma di grande effetto. L’album quindi si conclude con “Heimatt“, una lunga strumentale caratterizzata da chitarre tristi, prima di trasformarsi infine in pura prepotenza con anche un bell’assolo.
Sicuramente quest’album dà l’impressione che si sia aperto un nuovo interessante capitolo nella discografia dei Vreid, mantenendo sì le loro sonorità caratterizzanti, ma provando anche a dare della varietà alle loro composizioni.