Tra le band capaci di polarizzare il pubblico, sia in termini musicali che non, i Behemoth sono quelli che ultimamente vanno più di moda, quantomeno in ambito estremo. Se da un lato le trovate di marketing lasciano il tempo che trovano e generano polemiche piuttosto sterili — come l’ormai banale caffè in un universo di band improvvisamente caffeinomani, o il più geniale cibo per cani —, dall’altro discutere della proposta musicale e criticarla ha chiaramente il suo senso. Non sono pochi coloro che dichiarano di non seguire i polacchi da “The Apostasy” o giù di lì, non trovando più quel peculiare Blackened Death nella fetta di discografia che va da “Evangelion” in poi. La realtà dei fatti è che Nergal (e soci, ma probabilmente più lui) è stato bravo, bravissimo a prendere la palla al balzo un po’ di anni fa e virare verso lidi più hipster, per così dire, facendolo nel momento giusto, nel modo giusto e con l’etichetta giusta con “The Satanist”, un disco ben fatto e ruffiano quanto basta.
Cosa dire, quindi, di questo attesissimo e già quasi odiato “I Loved You at Your Darkest“? Senza dubbio è un disco che segue l’evoluzione della band, ma non verso qualcosa di più banale e orecchiabile, anzi. È vero, ci sono certe soluzioni un po’ cheesy: i cori di voci bianche, certe frasi non proprio nuovissime nel panorama e che lasciano un po’ di stucco (“Our Father, who art in Hell / Unhallowed be thy name“) e il titolo del primo singolo “God = Dog“, ampiamente discusso anche dallo stesso Nergal; musicalmente ci troviamo, però, di fronte a un disco complesso e decisamente meno immediato rispetto al precedente, tanto che i primi ascolti possono risultare un po’ spiazzanti. Emblematica a tal proposito è la traccia più lenta del lavoro, “Bartzabel“, non certo strutturalmente articolata ma piuttosto lontana dal ritornello catchy di “The Satanist” pur conservandone l’atmosfera, tra le più oscure del disco.
Per il resto, ci troviamo tra le mani l’ennesimo disco dei Behemoth, se non nella forma, almeno nella sostanza: tre quarti d’ora farciti di tamarraggine, esoterismo e religiosità interpretata secondo il punto di vista personale del signor Darski declinati con ritmi spesso tiratissimi, come nella bella “Ecclesia Diabolica Catholica” o in “Angelus XIII“, ma che lasciano spazio a soluzioni meno ortodosse, come le strofe arpeggiate di “If Crucifixion Was Not Enough” o lo strano refrain di “Sabbath Mater“, che sfocia in una seconda parte un po’ sui generis. I due fidi scudieri Orion e Inferno sono, come prevedibile, sugli scudi con due ottime performance: il basso sempre presente e pulsante dove serve e la batteria che non si limita alla furia bieca contribuiscono grandemente a dare varietà e personalità alle composizioni. E poco male se pezzi come “Havohej Pantocrator” seguono un po’ troppo il percorso tracciato da uno specifico brano del 2014, con questi risultati è qualcosa su cui si può anche un occhio.
“ILYAYD”, come ampiamente pronosticabile, è un disco che piacerà a chi ha apprezzato il predecessore (molto, nel mio caso) e che probabilmente allontanerà ulteriormente chi è profondamente affezionato a “Demigod” e affini. Un disco che è difficile definire Black Metal in tutto e per tutto, più un qualcosa che si presta all’interpretazione personale, in base alla propria sensibilità: probabilmente questo era uno degli intenti del quartetto polacco, con un’opera che nella personalissima classifica del sottoscritto si piazza mezzo gradino sotto “The Satanist”, ma che si dimostra essere in continua crescita ascolto dopo ascolto.