In quel mare di inciuci e malessere generalizzato che è la Church of Ra, i Wiegedood sono sicuramente quelli per così dire più “tradizionalisti”, con il loro estremismo sonoro declinato nella forma di un black metal sì moderno, ma che non nasconde legami con quanto uscito nel periodo d’oro del genere. L’incazzatissimo trio belga, composto da Levy Seynaeve (chitarre e voce, già negli Amenra), Gilles Demolder e Wim Coppers (rispettivamente chitarra e batteria, entrambi negli Oathbreaker), chiude in questo 2018 la trilogia “De doden hebben het goed” (traducibile con qualcosa come “i morti se la passano bene”), e lo fa nel migliore dei modi con un terzo capitolo che riesce a far coesistere benissimo le tendenze lievemente più atmosferiche del debutto e la furia bieca presente sul secondo lavoro.
Spesso si dice che affrontare la perdita di un proprio caro è un processo metodico e forse non è un caso che i tre dischi in questione presentino delle analogie sotto vari punti di vista: sono stati, infatti, concepiti per onorare la memoria di un amico di Coppers scomparso a 21 anni e diversi aspetti portano a pensare come la loro struttura possa essere un modo per metabolizzare il lutto. Quattro canzoni per disco, copertine molto simili ed essenziali, in cui il logo della band è piantato sulla terra d’origine di ciascuno dei tre membri e, ovviamente, una continuità stilistica che dona ai Wiegedood un’identità spiccata nel panorama black europeo e mondiale, paragonabile ad altre realtà di spicco come Mgła e affini. I Nostri svolgono un lavoro egregio nel condensare in meno di quaranta minuti una proposta che non presenta sbavature o punti deboli e, soprattutto, a non far trapelare elementi provenienti dagli altri progetti, piuttosto ingombranti, in cui si trovano coinvolti: ci ritroviamo quindi catapultati da un urlo lancinante di Seynaeve nell’opener “Prowl“, caratterizzata da un riffing serratissimo e dai tratti simil-Emperor, per poi proseguire con elevatissime dosi di disagio sparate a velocità altrettanto elevate che daranno tregua soltanto nella seconda metà di “Doodskalm“, forse il brano che più permette di ricollegare il trio a quel meraviglioso microcosmo che è il collettivo belga. La catartica title track ci accompagna per altri dodici minuti fino alla finale “Parool“, anche questa estremamente diretta e con un finale furioso che non lascia prigionieri.
Un lavoro estremamente compatto e dritto al punto, che lascia tuttavia un alone di malinconia essendo il tassello finale di un ciclo che, per quanto ne sappiamo, potrebbe non avere un seguito in studio. Perché può anche essere vero che i morti se la passano bene, visto il mondo di oggi, ma è anche vero che anche noi vivi, con dischi simili, non ce la passiamo poi così male.