Quando la carriera di un gruppo inizia con un album discreto, non dei migliori ma comunque capace di mostrare un buon potenziale, il suo successore attrae automaticamente molte attenzioni su di sé, in quanto potrebbe essere la svolta per la carriera del gruppo, in positivo come in negativo.
La situazione che affrontano i canadesi Altars of Grief è proprio questa: dopo aver debuttato nel 2014 con l’interessante “This Shameful Burden”, i Nostri arrivano dopo quattro anni a rilasciare la loro seconda fatica, questo “Iris” del quale tratteremo oggi.
Partiamo dal contestualizzare la proposta del quintetto, ovvero un Doom Metal dalle notevoli influenze Black che ruota attorno al contrasto tra melodia e prepotenza, unendo i due generi e formando un connubio atipico, ma molto intrigante.
L’ascolto di questo disco si può definire un lungo viaggio che attraversa l’anima dell’ascoltatore, vista l’immediatezza con la quale colpisce e coinvolge, catturando subito l’attenzione e facendolo immedesimare in ogni singola nota.
Ci troviamo di fronte a una produzione elegante, scritta con devota attenzione e molto ragionata, come si apprende fin dalla prima “Isolation“, la quale si apre con delle lunghe note di violoncello per poi evolversi nel vero e proprio pezzo: una composizione che avvolge in un’atmosfera sofferente e malinconica, nella quale spiccano le parti vocali, capaci di passare da un pulito profondo e soave a un growl molto diretto.
La seguente “Desolation” segue le orme della precedente, aggiungendo anche qualche tocco Death Metal non indifferente e concentrandosi maggiormente sugli elementi più irruenti e aggressivi fatti sentire in precedenza, senza dimenticarsi riff mai scontati e capaci di stupire continuamente, concentrati specialmente negli ultimi minuti del pezzo.
Molto interessanti anche “Child of Light” e “Broken Hymn“, accomunate dalla malinconia trasmessa, la prima specialmente per il cantato in pulito, la seconda per le parti strumentali, le quali evidenziano le sfumature Doom Metal presenti nella produzione.
Infine, molto toccante e scritto bene “Becoming Intangible“, pezzo che nella prima metà si concentra quasi esclusivamente sulla voce leggera di Damian Smith, accompagnata solo dal violoncello e dalla chitarra, senza distorsioni, per poi evolversi e lasciare spazio a una seconda parte dove salgono in cattedra le parti strumentali.
Gli Altars of Grief sono riusciti a produrre otto brani validi, andando creare un disco dalla durata totale di 55 minuti che non arriva mai a risultare prevedibile o annoiare e che ha tutte le carte in regola far parlare bene e dar loro un minimo di notorietà, sicuramente meritata.