I Death On Fire sono una one-man band creata per mano del polistrumentista americano Tim Kenefic: nati nel 2016, l’anno scorso la band (o Kenefic, per meglio dire) ha rilasciato il primo demo “Lazerwulf”. Ora, con il qui presente oggetto di recensione “Witch Hunter“, siamo pronti al consueto battesimo del fuoco con l’album di debutto.
Ma cosa ci propone il mastermind americano? La carne al fuoco è tanta: “Witch Hunter” si presenta come un meteorite dalle diverse sfaccettature. Meteorite perché è un concentrato di violenza e di brutalità, i momenti di calma e di pausa sono veramente pochi e si possono contare sulle dite di una mano; dalle varie sfaccettature perché la musica proposta è un melodic death metal con influenze thrash e grindcore in alcuni casi (come nella corta ma tiratissima “Metamphetamine Dentistry“). L’influenza thrash emerge nelle tracce in cui il livello di composizione è più complesso ed elevato: non aspettatevi nulla di trascendentale, ma perlomeno si cerca di variare il canovaccio presente bene o male in tutte le tracce. Un esempio di ciò è la title track, che però presenta una pecca che ne marchia irrimediabilmente le sorti in negativo: ascoltatevi la parte che inizia a 2:54 e finisce a 3:07, e ditemi se quest’assolo non vi riporta alla mente una canzone capolavoro composta da dei certi Metallica e che risponde al nome di “Fade To Black”… Strumentalmente parlando, ci troviamo di fronte a un album senza particolari virtuosismi e colpi di genio, suonato discretamente e che può regalare una mezz’ora abbondante di svago agli amanti del genere.
Ops, potrebbe, pardon. Perché la prestazione tutto sommato positiva di Kenefic per quanto riguarda la sezione strumentale viene completamente rovinata (per usare un eufemismo) dalle linee vocali dell’americano: sia in scream che in growl, il polistrumentista sforza all’inverosimile la sua estensione vocale (già mediocre di suo, da quanto si può evincere) portandola a livelli che non sono chiaramente nelle sue corde. E così canzoni ben composte come “Never See You Again” o “Requiem” diventano quasi inascoltabili nel ritornello e nella parte finale, dove la voce dell’americano è ai limiti dell’imbarazzante. E come se non bastassero le linee vocali sforzatissime e mediocri, Kenefic decide di dar loro un ruolo predominante nelle canzoni: la sezione strumentale in certi casi è totalmente coperta dalle voci, specie nelle parti più violente dove la confusione e la quasi-cacofonia raggiungono l’apice e la voglia di skippare la canzone non è solo forte, ma sarà istintiva.
In definitiva, “Witch Hunter” è un album che con delle linee vocali standard avrebbe raggiunto un’ampia sufficienza, perché strumentalmente non è assolutamente un brutto album: ma finchè Kenefic non affiderà le registrazioni vocali a un cantante esterno o si impegnerà a fondo nel migliorare la sua estensione (e il suo uso), i risultati non potranno che essere totalmente insufficienti come in questo caso. Bocciato senza riserve.