Nati nel 2012 i Mantar sono un duo teutonico, formato da Hanno alla voce e chitarra ed Erinç alla batteria, dedito ad uno sludge metal personalissimo e non facilmente inquadrabile.
Con un’invidiabile e fulminea escalation i due hanno firmato per Nuclear Blast rilasciando in aprile il loro secondo album dal titolo Ode to the flame; un lavoro che da una parte prosegue, migliorando, la singolarità del primo lavoro Death by Burning del 2014, dall’ altra vira ad un’ immersione nel metal estremo.
I Mantar di Ode to the flame sembrano soffocare il patrimonio rock ‘n’ roll del primo album calandosi, in un oscuro abisso di fango in pieno stile sludge, di mid tempo groovy saltuariamente intriso di una malsana melodia, una sfacciata attitudine hardcore ed un’oscurità opprimente che fa pensare ai primi Darkthrone.
Partiamo con Carnal rising i due gettano le basi per quello che sembra essere il loro manifesto. L’oscurità regna e con la bordata distruttiva centrale che colpisce duro. Il lavoro risulta una sorta di viaggio nei più profondi e reconditi abissi umani ammischiato ad tripudio di malsanità ed innata rabbia.
Si avanza con il trittico Praise the plague, Era borealis e The hint, tracce che segnano un vero e proprio punto di non ritorno; da qui in poi si viene immersi in una sfera di malvagità, sempre più espressiva e violenta, un oscuro tunnel nel quale non si scorge nessuna luce finale.
Born reversed, in ci dimostrano nuovamente la propria ecletticità, riuscendo a fondere dello sludge alla Red Fang, con sipari melodici darkwawe e del Black’n roll impregnato di pece.
Oz, un pezzo dalla composizione più complessa, testimone di maturità compositiva, nella quale un piccolo cameo tastieristico dona un che di gotico e decadente.
I, omen e Schwanenstein i Mantar ci conducono verso un abisso senza fine rendendo la prima canzone uno dei punti salienti dell’ intero album. L’ascoltatore scopre, con l’antra, che non vi è luce in fondo al tunnel e terminato questo viaggio non si intravede più neppure la strada percorsa tanto si è nell’oscurità.
Cross the cross è un brano diretto che strizza l’occhio all’ harcore, miscelandolo con lo sludge, e carica a testa bassa come una canzone dei Motörhead.
La conclusione l’abbiamo con Sundowning che, con un vero e proprio incipit intriso di odio e rabbia sfociante poi in un lento e massiccio riff, si inquadra come la canzone più oscura e soffocante del disco, il cui finale annega ogni residuo di speranza e luce rimasto a chi ascolta.
Concludendo, questa seconda fatica dei Mantar è un disco maturo rispetto al precedente nel quale riscontriamo un’evoluzione nella loro composizione e la capacità di render più organiche le influenze, in un’oscura alchimia di violenza, pesantezza e malvagità. Atmosfere profuse grazie ad una mai scontata ricerca del suono, una produzione, che se volutamente scarna e sporca rendendo la band riconoscibilissima e pressoché unica, rende giustizia all’ espressività del duo ed un’attitudine fresca e genuina che fa di questo disco un vero e proprio gioiello nella scena estrema.