Quando questa estate ho visto che i Meshuggah avrebbero tenuto dei concerti in Italia, per un momento il cuore ha smesso di battere. Li avevo già visti nel 2013, indimenticabile. Quando poi ho ascoltato il loro nuovo album, “The Violent Sleep Of Reason“, ho vissuto aspettando dicembre.
Arriviamo sul posto alle 19, e i cancelli sono già aperti: gli avventori sono ancora pochi e riusciamo a trovare un posto comodo in prima fila per apprezzare al meglio il sound delle due band.
Senza nessun preavviso, alle 19:45 salgono sul palco Matt Pike a petto nudo e compagni (loro con le magliette addosso, però). Non conoscendoli, ci aspettiamo qualcosa di sporco solo vedendo il muro di amplificatori sul palco: gli High On Fire non ci deludono infatti, sono grezzi e violenti, suonano per un’ora senza mai fare una pausa se non per sputare sul palco e per ringraziare i Meshuggah e il pubblico. Pubblico che è ancora scarso all’interno dell’Estragon, solo pochi già li conoscono e cantano le loro canzoni. Ma di sicuro non sarà più un problema per il trio statunitense, con la loro esibizione si sono guadagnati moltissimi nuovi fan e speriamo tanto di rivederli in Italia in futuro.
Abbiamo scapocciato per bene, siamo caldi e tiriamo il fiato prima di ascoltare le cinque divinità svedesi. Stiamo chiacchierando, poi il check delle chitarre ci taglia le gambe. Hype come se piovesse.
È davvero necessario un live report per i Meshuggah? Sì, anche per chi come me li ha già visti ogni volta è un’esperienza unica. Nei loro concerti tutto è perfetto: i suoni, le posizioni sul palco, la cattiveria, le luci, nulla è lasciato al caso. Sciorinano una setlist da paura, che prende canzoni da “ObZen“, “Koloss“, “Nothing” e ovviamente da “The Violent Sleep Of Reason“. I Meshuggah sono semplicemente delle macchine, sono precisi, decisi e maledettamente violenti. Jens Kidman, il cantante, come al solito è di poche parole sul palco, si prende solo brevi momenti per ringraziare il calore del numeroso pubblico e i loro compagni di viaggio High On Fire. Non manca, come sempre, di tenerci con il fiato sospeso prima di sussurrare velocemente “Bleed“, facendo partire così uno dei loro pezzi più conosciuti e amati. Se potessi, stringerei la mano al loro tecnico luci: data la complessità dei brani, i musicisti sono spesso fermi sul posto, quindi gran parte del coinvolgimento è dato dal caos dei fari in movimento, dai laser, dal fumo. Brividi dall’inizio alla fine, insomma, ce ne andiamo da Bologna confusi e increduli, ma felici.