Metalpit ha deciso di raccontarvi attraverso i miei occhi l’esperienza Summer Breeze nella sua diciannovesima edizione. Questo piccolo ma ben organizzato festival che si è tenuto in Germania nella cittadina di Dinkelsbühl dal 17 al 20 agosto sì è riconfermato una imperdibile tappa dei metal fest estivi per quanto riguarda qualità, dal punto di vista sia musicale che organizzativo.
La scelta di mantenere il Summer Breeze Open Air contenuto è ottima: garantisce un occhio di riguardo a tutti i partecipanti, performance ed artisti eccelsi, servizio attento in grado di coprire dai posti tenda ed auto internamente al fest ad ogni altra necessità (servizi igienici ed area sempre puliti, assistenza medica, cibo di qualità e free wifi accessibile nelle aree).
Per non parlare del prezzo: 111€ sono un costo più che ragionevole da sostenere, considerato quello che questo festival offre.
DAY I
Il mio viaggio verso la terra teutonica ha inizio in una calda notte di mezza estate.
Zaino formato cadavere ed io tocchiamo il suolo germanico per la prima volta dopo “appena” 8 ore di autobus. Da Stoccarda aeroporto alla ridente Dinkelsbühl incontreremo imprevisti e ritardi a causa degli elevatissimi controlli nelle stazioni e sui treni (qualche settimana prima un attentato ad Ansbach ha scombussolato i tedeschi: mai porre in stato di allarme i crucchi, MAI) i quali mi permettono di raggiungere la cittadina solo in serata.
Check in fuori mano rispetto all’effettiva entrata all’area dedicata al festival (una quindicina di minuti a piedi, se e quando passerà il bus ne basteranno poco più di cinque), ma dopo la trafila documenti/pass/perquisizione a tappeto riesco ad attraversare i cancelli.
A separare la zona camping dalla zona festival altre inferriate ed un solo tendone di controllo convoglia l’intera massa di metallari nell’area concerti (sì. Un solo tendone. Per tutti. Sì. Bitte.). Noto ancora una volta l’impressionante livello di sicurezza applicato all’evento: security onnipresente e ben preparata, ripartita adeguatamente e disponibile ad aiutare seppur ferma, al fine di garantire a tutti una permanenza serena e priva di rischi.
Attraverso e circumnavigo il campsite per giungere all’inculatissima area camping per possessori di V.I.P. e Press Pass. Pianto la tenda alla meno peggio, ingollo un boccone e mi getto nella mischia.
Si è ormai fatto tardi e la prima band che riesco a sentire sono gli AGNOSTIC FRONT in chiusura.
Mi caricano abbastanza (gotta gotta gotta gooo!) da farmi dimenticare quasi del tutto la stanchezza ed il viaggio frustrante . Nonostante si tratti del primo giorno di festival e perciò il pubblico è povero, non perdono la carica e la resa è notevole.
DAY II
Inizio il secondo giorno carica e propositiva, decido perciò di conoscere cosa il Summer Breeze offre oltre alla musica ed in mattinata esploro campsite e zona concerti.
Nel camping si trovano le docce, qualche stand alimentare ed un inaspettato quanto provvidenziale negozietto all’ingrosso dai prezzi più che onesti. Risalgo verso il Campsite Circus, un bel tendone che offre un film proiettato tutta la giornata, altro cibo e biergarten, mentre la sera diviene teatro di uno scatenatissimo metal karaoke. Attraverso il tendone della security con breve controllo in tasche e borsa e passo all’area concerti, dove trovo moltissimi stand di cibo (e poi cibo e cibo e cibo…), drinks, zona bancarelle e merchandise. L’intrattenimento al di fuori della musica al Summer Breeze, insomma, è sempre garantito sia che si preferisca rimanersene tranquilli nel camping sia che si abbia voglia di bighellonare fra gli stand.
Prima di passare alla musica lasciatemi fare un’ultima annotazione: l’esperienza SBOA (Summer Breeze Open Air… lo so, sotto forma di sigla lascia un po’… così) è preziosa già solo per l’aria goliardica e meravigliosamente commista fra demenza ed amicizia con e verso tutti.
Credetemi amici, fosse anche solo per questo ne vale la pena (se poi vi piacciono beer pong umani, omoni armadio a due ante cattivissimi nel loro vestitino da princifata-unicorno rosa, gli abbracci gratis e la violenza del pogo randomico… ci andrete a nozze). C’è persino chi ha portato la prole e la lascia scorrazzare libera e felice, perché tutti tengono d’occhio tutti. Non scherzo.
Dopo la sviolinata allo SBOA, procediamo col metallo.
Verso le 12 mi avvio nella zona dei due palchi maggiori: Pain e Main Stage. Il mio obiettivo era quello di non perdermi l’esibizione dei Monuments che già pregustavo. Questo anticipo mi permette di acquisire due cose:
un nuovo colorito particolarmente acceso (ACHIEVEMENT UNLOCKED: Aragosta) e la conoscenza degli aulicamente squilibrati LORD OF THE LOST, che delizieranno l’orecchio con cose per palati sopraffini, canzoni e cover in chiave metal come “Full Metal Whore”, “Black Lolita”, “Fists Up in the Air” per chiudere con “Everybody” dei Backstreet Boys e “La Bomba”, che coinvolgeranno unanimemente l’eterogeneo pubblico caricando tutti come molle canterine.
Intro perfetta per i MONUMENTS, li accogliamo conservando il sorriso sulle labbra e loro, seppur sfortunatamente sconosciuti a molti, riescono nel giro di due pezzi ad attirare attenzione ed interesse a dispetto di orario tremendo e sole battente.
La facoltà che hanno questi ragazzi di prendere gli animi e sollevarli ad uno status superiore, le grandi capacità tecniche, la perfetta intesa tra i membri della band che giocano e scherzano con il pubblico e fra di loro ed il frontman Chris Barretto che è sempre un fuoco d’artificio di energia e passione riescono a far sentire quanto impeto ed impegno genuino mettono in ciò che fanno. Ed io sono davvero orgogliosa di questi scalmanati che seguo ed amo da tempo e che con due soli studio album all’attivo (più il demo) sono riusciti ad emergere e farsi riconoscere.
Mancando una qualsivoglia zona d’ombra (o generico riparo) mi metto in fuga verso la ben attrezzata V.I.P. Area, nella quale farò il rifugiato politico fino agli EXODUS, per i quali affronterò nuovamente la calura perché, anche se il mega schermo permetta di vedere abbastanza bene i concerti, perdersi questi capitani del thrash sarebbe stato un peccato. Hanno sconvolto e coinvolto la folla con impressionanti walls of death e circle pits dando al pomeriggio del un gran movimento.
Capatina nel T Stage per i CATTLE DECAPITATION che di certo non potevo perdere. Nonostante la voce secca e qualche pecca alla qualità del suono, la performance è molto impegnata, tanto da farmi coinvolgere nel mosh dal quale uscirò ammaccata e quasi annegata nel mare di bestioni.
Li mollo prima della fine e non solo per le escoriazioni, ma anche perché sul Pain Stage hanno già cominciato a suonare gli EQUILIBRIUM, rendendo tutti vichinghi in una tonante atmosfera (in senso figurato, per fortuna).
Subito seguono gli AT THE GATES e la folla è sempre più nutrita: nemmeno riesco ad avvistare il palco, se non mi allontano di una trentina di metri.
Provvidenziale durante tutti i concerti si rivelerà la presenza del mega schermo strategicamente posto fra Main e Pain Stage che permette di sopperire alla mia statura (che confrontata alla media teutonica corrisponde a quella di uno slanciato nano da giardino) ed anche di godersi le inquadrature magistrali dei cameramen.
Pur non essendo una fan sfegatata della band, riconosco che gli At the Gates riescono a dare una performance bella accorata e vengo anch’io presa da questi impeccabili e potenti pionieri del melodic death metal.
Mi allontano dai palchi per un boccone mentre osservo dal fondo dell’area gli ASKING ALEXANDRIA abbrustolire i fan con qualche fiammata, a mio parere in eccesso, nel tentativo di bilanciare una performance insipida unita a quello screamo che a dirla tutta mi fa scemare ogni emozione lasciandomi inasprita. È che preferisco l’arrosto, al fumo. Sai com’è.
Dalle 22 la situazione si fa comica. Inizio a correre. Non in senso figurato. Non è un eufemismo.
Perché dalle ventidue mi trasformerò in un corridore scoordinato che cercherà di sdoppiarsi nel tentativo di sopperire all’aura potentissima di un nemico troppo potente: le band che vorrei sentire suonano quasi nello stesso momento.
Questo non è stato un disagio solo per me ed il mio palato musicale, ma anche per molti altri con i quali mi sono confrontata: l’organizzazione scelta dal Summer Breeze nel disporre alcune delle band più note e valide praticamente accavallate ha lasciato a desiderare un po’ troppe volte.
Io non riesco e non voglio scegliere univocamente e dunque faccio la follia di correre su e giù per il festival per avere un assaggio di tutto: incastrerò Fear Factory, Sabaton e Abbath, The Black Dahlia Murder e Testament.
Poi sono morta per un attimino, ma in media tutto ok.
Avendo preso tempo durante gli Asking Alexandria, ho modo di trovarmi tra le prime file alla salita sul palco dei FEAR FACTORY. Ben accolti da tutti: pubblico e cielo. A poche note dall’inizio, grosse e pesanti gocce sfoltiranno la mischia ma non intaccheranno minimanente i nostri che rimarranno strumentalmente puliti ed assolutamente aggressivi nel loro industrial martellante.
A seguire i SABATON, che non deludono mai. Quando nel dire power metal vorresti rendere la parola POWER maiuscola anche parlando. L’enfasi non è mai abbastanza, sia nel descriverli sia quella che questi guerrieri svedesi mettono nel darci una bella esibizione.
Causa orari malamente incastrati scappo alla volta di ABBATH nel T Stage, facendomi strada sgomitando e spingendo nel tendone coperto.
Ora, Abbath è sempre Abbath. Forse mi aspettavo qualcosa di differente, dal divorzio con gli Immortal. Di certo energico ed un pelo più estroverso, prosegue comunque cattivo e saldo nella performance certamente degna del suo nome in una scaletta che, però… è sì sua, ma anche così… ehm, Immortal? Scontatissimo e lo so, ma anche sotto le aspettative.
Mi fermo ancora nel T Stage per l’inizio dei BLACK DAHLIA MURDER, che pestano belli carichi e veloci con un’ottima presa sul pubblico.
Cedo in 20 minuti scarsi al prepotente richiamo dei TESTAMENT dal Main Stage. Qui rimango sorpresa dall’esiguità del pubblico ma decisamente contenta della loro esecuzione: i nostri si rivelano essere i grandi artisti che effettivamente sono. Ancora una volta danno prova di cosa voglia dire far bene un live show.
Concludo qui il mio DAY II poiché sole e pioggia battente mi hanno cotta, filo in tenda (nottata gelida e disagiante, i temporali hanno abbattuto le temperature e lo sbalzo termico del termometro crollato sotto ai 5/7° coglierà impreparati i più) per prepararmi al terzo, esplosivo giorno di Summer Breeze.
DAY III
La terza giornata si rivelerà la più riccamente costellata di nuove scoperte, band ed emozioni da infarto. Verso sera l’intervista con Frost dei SATYRICON (fatta in collaborazione con l’amica Sara della crew di Metalpit che ha curato stesura delle domande e traduzione in italiano) sarà il mio apice emotivo ed in un certo senso spirituale della giornata e quasi dell’intero festival.
Il DAY III partirà giustamente all’insegna della prode demenza dei GRAIL KNIGHTS, che non escono da Warhammer ma sono una giovane band tedesca che mi piace additare come la cosa più ignorante del terzo giorno (dopo la sottoscritta nei momenti successivi all’intervista con Frost). Questi tizi, miei eroi della mattinata, si sono presentati vestiti da supereroi coperti da strati di lattice, foam e mantelli sotto un sole che avrebbe fatto desistere Batman (o Django, dai) dalla lotta al crimine. L’esibizione è simpatica e coinvolge il pubblico, ma devo dire che se non fosse per il livello di ignoranza dubito mi avrebbero colpita particolarmente, nelle loro mezze cover mashup di propri testi in chiave power/viking/sono piuttosto indecisi/death metal.
Passo al T Stage verso le 13 per i CONAN che, nonostante l’impegno palese, trovo immobili. Staticità e scarsa emozione da una band che tutto sommato solitamente gradisco anche mettere in playlist. Peccato.
Seguono gli ARKONA che con quella loro elettrica energia folk mi fanno recuperare alla grande ogni spegnimento d’animo offrendoci un motivo per ballare ed un (ahimè) figurato giro di “Vodka”.
Di corsa al Pain Stage per i DYING FETUS perché non voglio perdermi nemmeno una rullata.
Ecco. Finalmente. La cattiveria. Prepotenti e brutali, tecnicissimi eppure potentissimi. Acclamatissimi, purissimi, levissimi. Non mollano un secondo e senza tregua stremano il pubblico che da umano si trasforma in vortice di circle pits e mosh non indifferenti. Credo d’aver visto un emù.
I QUEENSRŸCHE, che puntano tutto su pezzi più noti ed alcune perle di vecchia data, a me paiono parecchio costretti sia nei testi che in una performance un po’ troppo priva di rischi.
Manca poco alla mia intervista perciò mollo tutto per prendere posto nella Press Area onde evitare imprevisti o sorprese.
Nel mentre, con grande rammarico seguo gli ARCH ENEMY solo dallo schermo, anche se la bella e potentissima voce della meravigliosa Alissa mi giunge senza barriere. La band anche da qui non perde potenza o valore e posso confermare che la performance è stata ineccepibile.
Varrà la pena perderseli dal vivo perché Frost si rivelerà essere una persona squisita nonché un gentleman, alle prese con la mia voce tremante. Professionalità avanti a tutto si è presentato alle interviste senza fermarsi un secondo: ancora bagagli alla mano e digiuno dal mattino si è sorbito ognuno di noi, disponibile ed amichevole, senza batter ciglio.
Appena terminata l’intervista, tempo di smetter di galleggiare e mi fiondo sui MASTODON. Questi mi lasciano un attimo perplessa: a seguito delle giornate all’insegna di grandi esecuzioni soprattutto atte a coinvolgere il pubblico, li vedo esageratamente concentrati sull’esibirsi e distaccati dal resto. Sempre grandi. Scarichi, però.
Passo ai CARCASS molto più grintosi, riescono a gasarmi con una scaletta trita e ritrita ma eseguita ineccepibilmente a muso duro.
Un salto in tenda, perché si gela e miseria ladra il clima qui passa da “Caraibi” a “Norvegia” in mezz’ora, e torno con gli amici del press per godermi la mia prima volta alla presenza di nientepopodimeno degli illustrissimi SLAYER.
Aria elettrica, folla nervosa ed impaziente. La ressa è immane, copre tutto il suolo calpestabile e non dell’area concerto di questa porzione. Anche chi non è un fan non si perderebbe mai un’occasione del genere.
In uno degli sporadici momenti in cui intravedo il palco avvisto giusto giusto Tom Araya che avanza. Esplosione di ovazioni, fiammate altissime e già iniziano i cori. Sin dalle prime note i crowd surfers si sprecano (senza scherzare me ne saranno rovinati addosso sei o sette) così come anche la moltitudine di voci, head bangers ed emozioni.
Tutto senza limite. Performance dalle prestazioni musicali gloriose anche se i nostri beniamini siano in sostanza inchiodati al palco.
Salvo qualche capocciata li vedo molto pacati, osservano il marasma di fan con indulgenza. E va bene che siete i cazzo di Slayer e potreste permettervi di stare in poltrona, va bene che siete mostri sacri e potreste far tutto dormendo in piedi ma non serve farlo per forza. Vi immaginavo più trasportati, ecco. Più vitali.
Sull’eco delle ultime note degli Slayer, come da atteso, il pubblico scema.
La massa di gente cala, sì, ma non tanto da permettermi di raggiungere le prime file del piccolo Pain Stage dedicato ai SATYRICON.
Ci sarebbe l’opportunità di salire su di un palco laterale dedicato al press, ma questa webzine è FROM FANS TO FANS. Quindi decido di no.
Questo mi mette nella posizione di dover attuare il malefico quanto geniale piano che con i miei appena incontrati enormi amici abbiamo finemente elaborato: intuendo quanto l’idea di vederli da vicino mi premesse, si propongono di lanciarmi verso le prime file del pubblico pressato sotto al palco.
Accetto.
Sorprendentemente, funziona.
Ancora più sorprendentemente, ne esco QUASI intatta. Sbucciata dal tappeto di borchie e catene sul quale sono atterrata, ma intera.
A pochi attimi dal mio volo d’Icaro, fumo e giochi di luce non indifferenti accompagnano l’entrata dei miei favoriti.
Emergono uno ad uno (sì, ho fatto ciao ciao con la manina) ed io osservo un Satyr estremamente sobrio e calmo, lo vedo forse un po’ stanco ma sapendo dei suoi problemi di salute (ancora una volta vi mando a leggere l’intervista) non gli si può dire nulla se non: grazie. Vederli festeggiare e celebrare il ventesimo anniversario di Nemesis Divina eseguendolo per intero, accompagnato da qualche altro pezzo, mi rende felice per loro come fossero cari amici.
Fin da subito ricordano a tutti perché sono innegabili luminari del loro genere, con autorevole potenza ci accompagnano nelle lande della loro madrepatria. Questa è una performance particolare, diversa: tutto pesa di più, ogni nota, ogni parola sono orientate ad incidere più a fondo.
Come mi ha più volte ripetuto Frost loro sono in costante mutamento, i Satyricon sono un organismo vivente ed in quanto tale evolve, si trasforma, cambia continuamente. Devono farlo e mai smetteranno per non cessare d’esistere. Ecco spiegati il maggiore tecnicismo, la scelta di far affidamento anche su di un supporto tecnologico e l’atteggiamento differente sia sul palco che nella musica di questi blacksters veterani.
L’esecuzione risulta meno rapida (tranne per Frost che una volta partito chi lo ferma più) ma per nulla meno intensa. Ci sprofondano per accogliere, corna in aria, l’immortale “Mother North”.
Nonostante tutto il concerto sia improntato su di una linea differente rispetto al passato, sarà emozionante e travolgente. Trovo i Satyricon la boccata di magia per questa giornata. Resilienza e grande voglia di andare avanti, di migliorare e dare vengono dimostrate anche dal nuovo album in arrivo.
Per me il terzo giorno si conclude con loro, non potrei volere di più.
DAY IV
Inizia il mio ultimo giorno al Summer Breeze e già ho nostalgia di tutto e tutti. Mi manca questo clima disteso e sorridente, dove non esiste altro al di fuori del metal, della birra e della goliardia.
La stanchezza inizia a farsi sentire e pesare, perciò passo la mattinata all’ombra della Press Area fra aggiornamenti sull’andamento del festival e caffè.
Allungo occhi ed orecchie verso il mega schermo durante i GOITZSCHE FRONT ed i LETZTE INSTANZ che fatico entrambi ad ascoltare.
Vuoi perché il sound dei primi sa di sentito e risentito, vuoi perché per me è qualcosa che ricollego all’adolescenza ed ho abbandonato da una decina d’anni, non riesco proprio a sentirli. I secondi, seppur con un’ottima scelta strumentale, mi colgono semplicemente scarica e non attecchiscono.
I (beer beer!) KORPIKLAANI (beer beer!) sono come sempre accolti con entusiasmo da uno stuolo di fans che già sanno cosa li attende da parte di questi grandi del folk metal. L’aria divertita ed allegra si trasmette dal palco al pubblico e viceversa. Con facilità portano tutti ad intonare i brani (solo in inglese, per me) ed alzare i calici ben volentieri anche qualche volta in più.
I SUBWAY TO SALLY ricevono approvazione dalla moltitudine di connazionali e non solo, sanno davvero dare il giusto giro di carica coadiuvando un buon assortimento strumentale, giusto pestare dietro le pelli alla presenza scenica d’impatto (tutto quello che i miei occhi riescono a focalizzare è la loro violinista). Potendo giudicarne prevalentemente il sound, questa band è per me una sorpresa dal punto di vista live: strumenti ben equilibrati e giusta dose di epicità attirano genuinamente l’attenzione.
Tempo di decidere scegliere cosa mangiare fra l’ampissimo e quasi imbarazzante assortimento di stand (io sono intollerante praticamente a tutto, anche alla vita e nonostante ciò ho avuto un menu vasto) ed iniziano gli STEEL PANTHER. Il glam non si fa attendere ma nemmeno le amenità: bambole gonfiabili, tette al vento, scenette macache da parte della band portano sia svago che musica di un genere contrastante con la linea del festival e della giornata in sé.
Sempre sorprendenti, i BLUES PILLS restano su quest’onda vintage con una resa tale da spingermi a sfidare la pioggia grazie soprattutto alla ricca voce soul della cantante.
Non me li godo fino in fondo per due semplici motivi: NAPALM e DEATH.
Giungo presso il T Stage nel pieno di uno dei discorsoni di Greenway che tendono a far calare un poco l’attenzione del pubblico anche se non per molto. Passa appena qualche minuto perché lui riprenda a martellare e passeggiare folle sul palco con una performance vocale isterica che rasenta il manicomio. Complessivamente trascinanti, ma il buon Greenway davvero mi distrae eccessivamente. Trasmette fin troppo bene il concetto di frenesia.
Sfrutto la posizione acquisita per veder iniziare i MY DYING BRIDE. Loro s’inseriscono senza sforzo nell’attuale atmosfera: disagio, clima uggioso e doom si sposano perfettamente. Sembra fatto apposta. Si dimostrano intensamente presenti grazie alla pesantezza d’animo che riescono a dare all’esecuzione, sfoderando anche perle come “Your River”. Li trovo visivamente immoti ma suppongo che vada bene così, ognuno si immerge nella nebbia a modo suo, dopotutto. La performance non è intaccata dal ristagno.
No rest for the wicked, perché ancora una volta mi ritrovo a dover camminare in testa alla gente con il proposito di raggiungere il Main Stage. Scossa di vita con i PARKWAY DRIVE mentre mi godo qualche pezzo (“Home Is for the Heartless” e pelle d’oca). Dal vivo sono totali. Sollevano un’energia altissima, potenti più di tutti sulla scena metalcore, il suono rasenta l’intollerabilità. Scoppiettante, il finale con i fuochi d’artificio si rivela perfetto: chiude una prestazione intensa ed accompagna mentalmente alla band seguente, i KATATONIA.
Questi mi hanno accompagnata in tutti i momenti più significativi della mia vita. Perciò, comprensibilmente, ho la pelle d’oca da inizio mese all’idea di vederli. Onestamente, pur essendo follemente innamorata, non li vedevo molto come band live, credo meritino un altro approccio ma mi dovrò ricredere perché la loro esecuzione sarà inebriante.
Pubblico inizialmente scarno che si infoltirà man mano, attirati come falene.
Nebbia e luci, fumi e nient’altro finché prima il suono, poi la voce emergono dal buio. Sono mesmerizzata sin dall’inizio.
La voce di Jonas non perde un atomo d’intensità (anche se credo si sia fin troppo dedicato al sollevamento forchette, ultimamente) e gli strumenti si bilanciano alla perfezione.
Dopo il primo pezzo il frontman interagisce con il pubblico, parla e chiacchiera. Chiede come va, come stiamo, se ci divertiamo. Si dispiace per l’ora tarda e per il clima. Tra un brano e l’altro lo farà nuovamente, ci dirà d’esser stato nervoso per la performance e spiegherà alcune delle scelte di scaletta.
I Katatonia ci regalano pezzi dall’ultimo album, “The Fall of Hearts”, ma scavano anche nel passato con grande varietà. Loro sul palco si divertono ed hanno grande complicità, si affiancano e scapocciano felici come ragazzini.
A parte qualche gracchiare e qualche attimo di pelli prevalenti su tutto e piccoli disturbi tecnici, la performance non perde di equilibrio e non viene intaccata minimamente: nemmeno una nota presa male od un assolo perso nella crescente celebrazione in cui si sono gettati a capofitto.
Con “Lethean” e “Old Heart Falls” canto con lui. Durante “Buildings” e “Dead Letters” mi accorgo che, oltre alla pelle d’oca, ai pugni in aria e lo scornare ho anche qualche lacrima d’emozione da dare ma anche di non esser l’unica.
Ognuno dei partecipanti si è lasciato trasportare in quest’abisso nel quale loro, mistici ed immensi, ci hanno sprofondato.
Eccetto il tizio con la maglietta degli Opeth che ha blaterato a voce altissima durante tutto il dannato concerto. Guarda che se sei venuto a far la sfida non c’è problema, ho giusto qui con me un paio di pizze made in Italy da darti. Infatti, pare che qualcuno dei “troppo tranquilli e scontati” fan dei Katatonia l’abbia rimosso delicatamente.
Resa intensa e scelta di una scaletta niente affatto banale segnano una chiusura di qualità.
Termina qui la mia esperienza Summer Breeze segnata dall’unica cosa in grado di sconvolgere e strappare l’anima a chiunque sappia ascoltarla: la musica.
2 commenti
brava Lisa!
<3
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