Reduce da giorni di sole accecante e da fiumi di birra come se non ci fosse un domani, è arrivato il momento di salutare il Firenze Rocks 2017 e di darvi – per quel che mi riguarda – un reportage su quello che sono stati i momenti più attesi e importanti del festival. In questi tre giorni alla Visarno Arena (di cui non ho potuto, purtroppo, assistere al secondo) ciò che ha dato subito nell’occhio è stata l’organizzazione (a parer mio) impeccabile sotto diversi punti di vista: diffusione dei servizi igienici, stand gastronomici ben variegati e in generale una grande area open air che dà l’impressione di non trovarsi neanche nel Bel Paese. Lodevole anche l’atteggiamento del pubblico e dello staff, che ha portato alla pressoché assenza di tensioni e fastidi di qualunque tipo. A contornare il tutto, il furgone di Virgin Radio con dj e speaker sempre disponibili ad intrattenersi con il pubblico durante la diretta.
Unico tasto dolente sono stati i costi all’interno e il metodo di pagamento tramite token: scelta ormai abbastanza diffusa, se non fosse che lo scaglione minimo da acquistare fosse di cinque token per ben quindici euro (che diventano decisamente tanti considerando i prezzi elevati di cibo e bevande all’interno, appena sufficienti per un panino e una birra), token comunque validi soltanto per la giornata in cui sono stati acquistati. Pochissime zone d’ombra e acqua esclusivamente a pagamento hanno fatto il resto. Ma passiamo allo spettacolo!
I primi artisti di una certa caratura a calcare il palco sono i Placebo, che celebrano i loro 20 anni di carriera con un greatest hits che ha riproposto gran parte delle loro perle. Aprono il concerto con l’eccelsa “Pure Morning“, “Loud Like Love“, “Jesus Son“ e subito si può definirli puliti, impeccabili, precisi come ascoltarli sul disco. Seguono i successi immancabili come “Twenty Years“, “Special K” e “The Bitter End“, con la quale la Visarno Arena è letteralmente esplosa per aria dalla potenza. A livello di musica e spettacolo, la band di Molko e soci non ha deluso le aspettative, rivelandosi, come già sapevamo, una delle migliori rock band degli ultimi tempi. Peccato solo per la freddezza della band nei confronti del pubblico: poche incitazioni, poca carica letterale da parte di Brian, quasi come un disco risuonato e con minime pause tra un brano e l’altro. A parte questo, il primo giorno lo rivivrei anche solamente per loro, perché sono stati davvero sopra le aspettative, dei veri signori capaci di farsi ascoltare con la massima attenzione, nonostante il poco (come suddetto) dialogo. Un’ora di “ripresa” ed arrivano Steven Tyler e soci.
Ragazzi sono arrivati gli Aerosmith! La band statunitense ci ha lasciati praticamente spettinati sin dall’arrivo con la loro “Let The Music Do the Talking“, durante la quale Tyler è salito sul palco con il suo mantello argentato, gli occhiali a specchio, i capelli lunghi mossi dal ventilatore sparato in faccia e gli immancabili foulard colorati legati all’asta del microfono. Ha sfoggiato e sputato tutta la potenza e la carica interna, nonostante questo sia (quasi incredibile da crederci) il loro tour d’addio. La loro esibizione ha ruotato su brani dall’87 al ’93, periodo in cui la band rinacque dopo il buio periodo di fine anni ’70, ricollegato all’allontanamento di Joe Perry e soprattutto ai problemi di droga vari. Ed è proprio con l’appena citato Joe Perry che lo spettacolo prende ancora più vita, visto che (oltre alla sua immensa dote musico-tecnica) i due giocano continuamente insieme tra un solo e l’altro. Sono stati delle autentiche bombe, loro erano consapevoli del fatto che ci avrebbero fatto male e infatti sono arrivati con ogni brano dritti al nostro stomaco. Ovviamente non sono mancate i brani portabandiera della band come “Rag Doll“, in cui ad un certo punto Tyler ha smesso di cantare per ascoltare tutta l’arena, un vero maestro. Successivamente pezzi immancabili come “Livin’on the Edge“, “Janie’s Got a Gun“ per poi arrivare ad una romanticissima e struggente “I Don’t Want To Miss A Thing“ in cui Steven ha regalato a tutti noi metà del suo cuore attraverso la sua voce, nella quale, nonostante la perfezione, si scorgeva chiaramente quel minimo tremolio di una gola enormemente emozionata. Le perle non sono mancate, infatti i nostri ci hanno riproposto anche una cover dei Beatles (“Come Together“) che poteva essere tranquillamente un brano degli Aerosmith, tanto sono riusciti a riproporla in chiave personale. Tra tante canzoni, impossibile non soffermarsi anche minimamente sulla tecnica della band, alle volte anche incredibile, ritmica e carica come dei 15enni: l’armonica di Tyler a dir poco sublime e Joe Perry che con la sua chitarra ci ha emozionato enormemente con i suoi soli, fino ad accompagnarci verso la fine del concerto con un esplosiva “Wak This Way“ che ha letteralmente ribaltato la Visarno Arena. Nessuna critica a livello di spettacolo, se non che ad un certo punto i grandi schermi hanno smesso di funzionare, lasciando il pubblico illuminato solamente dal logo della band per 20 minuti buoni e facendo venire a mancare la visione di ciò che accadeva sul palco. Errori tecnici? Qualcosa non ha funzionato? Beh, mi viene da dire “il bello della diretta”, ma sicuramente da non ripetere, vista la reazione della gente. Un primo giorno che si è rivelato essere di grandissimo livello.[/wptab]
Terzo ed ultimo giorno per il Firenze Rocks. Dopo l’esperienza indimenticabile e potente di Aerosmith e Placebo due giorni prima, sono arrivato al “Last Live” di questo evento, che sicuramente lascerà il segno nel cuore di ogni rocker, con Prophets of Rage e System Of A Down. Indiscutibili e super azzeccate le previsioni, ovvero: devasto! Infatti, sin dall’arrivo dei Prophets Of Rage (band con ex elementi di Rage Against The Machine, Cypress Hill e Public Enemy), all’interno dell’arena si è alzato un polverone alto metri e metri che ha perdurato per quasi tutta l’esibizione, facendo saltare ininterrottamente 80 mila presenze. Immancabile Tom Morello (storico chitarrista dei Rage Against The Machine), veramente in grandissima forma, per non parlare del suo suono impeccabile, corposo e con estreme rievocazioni stilistico/tecniche ricollegabili ai RATM. Della suddetta band ne è rimasto l’animo, che in questo live ho purtroppo visto affievolirsi pian piano. A parer mio, è stato dato troppo spazio alla corrente rap (indubbiamente una delle colonne portanti della band), nonostante il live fosse strutturato quasi completamente su cover di Zack De La Rocha e soci.
Una perla rara comunque sono riusciti a lasciarcela anche i “Profeti”, visto che nel bel mezzo del concerto è stato chiamato sul palco Mr. Serj Tankian che ha duettato con la band in “Like A Stone“, celebre brano degli Audioslave. La scaletta a seguire è stata assolutamente impeccabile: non sono mancati brani come “Guerrilla Radio“, “Take The Power Back“, “Testify“, “Bullet in the Heat“ e l’immancabile “Killing In The Name“, che nonostante tutta la carica che la contraddistingue da tanti altri brani è stata riproposta con meno grinta e decisamente più lenta. Così ci salutano i Profeti, con un masterpiece e con un ringraziamento al pubblico italiano.
Ore 21, arrivano i System of a Down. Una splendida scaletta anche se uguale a 12 anni fa, che ripercorre gran parte dei loro album, nonostante non ne pubblichino più dal 2005. Il pubblico è andato totalmente in delirio e i Nostri ci hanno augurato la buonasera con (l’intro) “Soldier Side“ per poi attaccare nell’immediato “Suite-Pee“. Impossibile descrivere la potenza e la reazione del pubblico se non con una parola unica: inumana. Il polverone ha ripreso vita ed ha quasi superato l’altezza dei grandi schermi, al di sopra di migliaia di persone che saltavano e cantavano con le braccia verso il cielo e con un pogo enorme nel pieno centro dell’arena. D’impatto sono stati i vari stop & go della band, in cui dal devasto si arrivava al pieno silenzio, durante il quale Serj Tankian sorrideva con aria da gentiluomo ma anche da bastardello. La carica di questa band è a dir poco impeccabile, una batteria spaccatimpani con un suono micidiale quasi a sfiorare il death metal. Tecnica e riff di una corposità eccelsa, delle volte verrebbe da dire anche meglio che sul disco. La voce secondaria (e di supporto), nonché la presenza scenica di Daron Malakian, hanno giocato un ruolo determinante per la sostanza di questo live, visto il suo modo diretto di suonare, decisamente senza mezze misure e sempre dritto al centro, ma anche per il suo essere ironico sia con Serj che con il pubblico, mantenendo quella troppa serietà che alle volte sfociava nel simpatico e con cui forse si prendeva in giro anche lui stesso. Il tasto dolente? Eh sì, perché c’è, nonostante non ce lo aspettassimo. Tankian purtroppo non è riuscito a ridarci l’energia dei dischi: non voglio essere troppo duro su questo artista che si è reputato un vero e proprio gentiluomo sul palco, ma ciò che manca adesso a Serj è la colonna portante del suo personaggio e dei suoi brani: gli acuti! Voglio essere buono, speranzoso e ciò che deduco è che il nostro “Gentleman of the System”, avendo preso già da anni la strada più melodica con i suoi album con orchestra ed altro, abbia lasciato che questa vena surclassasse quasi definitivamente quella cattiveria che lo contraddistingueva, per il suo passare dalle parti vocali gravi a degli acuti, mischiati alle sue grida potenti e indiscutibilmente uniche. Su questo non c’è dubbio, Tankian ci ha provato all’inizio a riprodurre quella grinta sulle parti alte e forse ci è riuscito (non ottimamente ma almeno ci ha provato), dopodiché ha lasciato che fosse Malakian a prendersi la briga di riprodurre ciò che noi fan eravamo già abituati ad ascoltare. A livello vocale, sui registri medi/gravi niente da dire, Tankian dispone ancora di un “growl” pazzesco e sono forse quelli i momenti in cui lo sentivamo davvero e meglio delle parti cantato/parlate. Già, perché fino a che non ha tirato fuori quella cattiveria, delle volte ci domandavamo se cantasse oppure no. Mi ha dato l’idea di un uomo che pensava “ok, proviamo a rifare i pezzi di quando ero giovane e in forze”, oppure di un uomo che si trovava a dover cantare ad un karaoke con quell’attitudine minimalista e forse anche impacciata, visto che tra l’altro non ha saltato né balzato a destra e sinistra. È rimasto nella sua posizione composta, alle volte rigida e con il suo dito alzato sempre come a voler dettar legge per tutto il live. I pezzi della scaletta (28 per la precisione ed eseguiti in rapida successione) hanno fatto si che la potenza della band facesse passare in secondo piano questa problematica e triste realtà, riproponendo delle gemme come “Prison Song“, “Aerials“, “Bounce“, “Psycho” e “Chop Suey!“ per solamente un’ora e trenta minuti di concerto (!).
Ecco il secondo tasto dolente: la durata del concerto e il saluto troppo freddo al pubblico. Esattamente dopo aver eseguito gli ultimi due brani, “Toxicity” e “Sugar”, la band ci ha letteralmente liquidati con un “Goodnight” come fosse un finale falso, lasciandoci attendere qualche minuto per poi goderci il rientro onstage della band per altri 2/3 pezzi. E invece no, siamo rimasti tutti lì, impietriti, senza sapere cosa fare. Neanche i tecnici sapevano che pesci prendere, visto che la band era uscita, le luci dell’ippodromo non si erano accese ed il palco era rimasto volutamente illuminato blu notte dall’ultimo brano, forse con qualche filo di speranza di un’ultima esibizione. Invece la speranza ha terminato la sua corsa, quando dopo circa 7/8 minuti si sono accese le luci principali dell’arena, facendo realizzare che quel “Buonanotte” era reale al 100%. Mi riecheggiano ancora le voci dei fan mentre mi dirigevo verso l’uscita, letteralmente imbestialiti. Non avevano tutti i torti, ma a parte questo un live davvero da rivivere per la carica, i brividi e per questa macchina da guerra che difficilmente riusciremo a fermare, a meno che non lo vogliano personalmente Tankian & Co.
Firenze Rocks si è rivelato un evento di grandissimo livello, di cui Firenze non può più fare a meno. Spero che il prossimo anno (qualora venga riproposto) non duri meno di una settimana!