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Il Brutal Assault, ormai da anni stabile nel panorama dei migliori festival metal europei, giunge in questo 2017 alla sua ventiduesima edizione. Molte le attrazioni in termini di gruppi e spettacoli esclusivi, così come anche le migliorie relative ai vari problemi incontrati durante l’edizione 2016. I quattro giorni di concerti si sono svolti in linea di massima senza intoppi, salvo una violenta tempesta durante il terzo giorno che ha causato un blackout e l’interruzione dei concerti per motivi di sicurezza. I numerosi gruppi presenti si sono rivelati all’altezza delle aspettative, con ottime esibizioni da parte degli headliner così come dei gruppi minori che hanno comunque goduto di una risposta degna di nota da parte del pubblico, in termini di numerosità e coinvolgimento. Purtroppo, poiché non abbiamo il dono dell’ubiquità (ma quello dell’obliquità sì, dato il prezzo delle birre), non siamo riusciti a seguire proprio tutti gli artisti di maggiore caratura, ma di certo quelli a cui abbiamo assistito hanno dato tutto, andando oltre le speranze dei fan sia sui due palchi principali alternati (Jägermeister e Sea Shepherd) sia su quelli secondari, ovvero il Metalgate e l’Oriental, quest’ultimo ancora più di nicchia. A contorno delle esibizioni, la sempre ottima proposta extramusicale del festival prevede un pressoché infinito assortimento di cibi e bevande, svariati stand con merchandise, un cinema horror all’interno delle mura e, da quest’anno, un’area lounge con esibizioni di musicisti ambient ed elettronici. Di seguito il resoconto di queste giornate, in attesa di ulteriori nomi per l’edizione 2018 che si aggiungeranno ai già confermati Perturbator, Carpathian Forest e Dead Congregation. Buona lettura!
DAY 1
Il primo giorno è anticipato già la sera precedente da un warm-up party gratuito con band locali, appena prima dell’ingresso principale e a ridosso delle mura della Fortezza di Josefov, ormai sede fissa del festival ceco da dieci anni a questa parte. Come al solito, il clima di festa è già percepibile con gli accampamenti che si espandono come i funghi (sia nella versione VIP, con qualche comodità in più, che nella versione “hardcore”, gratuita in qualsiasi punto la propria schiena riesca a stendersi più o meno comodamente). All’ingresso, i problemi tecnici dello scorso anno sono un lontano ricordo, anche grazie alla possibilità di ricevere a casa i propri braccialetti (con un taglio del 18% degli ingressi totali alle file del checkin sul posto). Diversi gli eventi principali degni di nota in questa prima giornata, ma non solo: ad aprire troviamo una buona percentuale di Svezia, con i coinvolgenti God Mother ad assumere il difficile ruolo di prima band del festival, e dei The Lurking Fear, nuova band che vede al timone l’inossidabile Tomas “Tompa” Lindberg e Adrian Erlandsson dietro le pelli, entrambi degli At The Gates. Italia già presente in questa prima tranche, con gli ormai navigatissimi Fleshgod Apocalypse a tener botta sullo Jägermeister Stage nonostante il sole cocente.
La prima band storica a calcare il palco sono stati i canadesi Gorguts: guidati da Luc Lemay sciorinano un concerto senza punti deboli, pescando a piene mani dagli ultimi tre album della band. Sul palco più piccolo, l’Oriental, i giovani Cough ci regalano uno degli show più sofferti e intensi a cui abbia mai assistito, carico di lentezza e pathos. A seguire sullo stesso palco i tedeschi Ultha, fautori di un black metal di buona fattura ma che alla lunga sono risultati un po’ ripetitivi.
Sul Sea Shepherd Stage è The Dillinger Escape Plan in uno degli ultimi show in assoluto per la band americana in via di scioglimento: come al solito, la loro performance è un rullo compressore, tanto concreta quanto sfuggente, sicuramente il primo highlight di una certa caratura di questo Brutal Assault. Cinque minuti di attesa e sul palco accanto salgono i Master’s Hammer, storica band ceca che ritorna sui palchi dopo una lunghissima assenza. Scenografia malefica, procaci modelle-bafomette con più pelle in vista che vestiti, ed una performance decisamente sopra la media per un pubblico che si stendeva a perdita d’occhio.
Rassegnato al fatto di essermi perso un’altra esibizione di prim’ordine, quella dei Boris, decido di aspettare per vedere i Batushka: la liturgia officiata dal combo polacco avvolge e coinvolge i presenti, perdendo forse un po’ in atmosfera e intensità rispetto alle esibizioni al chiuso. La giornata si chiude con i Wolves In The Throne Room, autori di una performance ottima nonostante la stanchezza mi abbia costretto ad una ritirata anticipata. Prima giornata già ineccepibile, ma niente a che vedere con quello che avverrà l’indomani.
DAY 2
La nostra giornata si apre sui palchi principali con le Nervosa: le tre ragazze brasiliane, con una new entry alla batteria, tengono molto bene il palco con il loro thrash metal socialmente impegnato alla Sodom e coinvolgono un pubblico già ben nutrito nonostante sia appena mezzogiorno. Un paio d’ore dopo, è il turno dei Cryptopsy nell’ambito del “None So Live Tour”, che ripropone per intero lo storico album del 1996. La band guidata da Flo Mounier, autentica macchina da guerra dietro le pelli, prende a pesci in faccia l’audience sciorinando una serie di pezzi dalla violenza inaudita, corredata da una pulizia sonora necessaria per cogliere tutti gli aspetti del loro technical/brutal death metal. Due sguardi veloci al thrash metal dei californiani Havok e agli ormai più che popolari Arkona (quelli russi) ed è tempo di una doppietta niente male sul Metalgate con i The Great Old Ones prima e gli Swans poi. I francesi si fanno attendere con un soundcheck piuttosto lungo, ma rimediano con un ottimo set fatto di un mix tra black e doom, il tutto con riferimenti a Howard Phillip Lovecraft (il cui faccione fa bella mostra di sé dietro la batteria). Gli Swans sono l’ennesimo highlight del festival: Michael Gira e soci suoneranno quello che sarà il concerto più lungo della storia del Brutal Assault, quasi due ore e mezza. Anche qui l’attesa si fa lunga e tediosa: la stanchezza (che purtroppo sarà una costante di questi quattro giorni) mi costringe al forfait dopo venti lunghissimi minuti di suoni sperimentali. Non me ne voglia il combo newyorkese, ma bisogna essere in condizioni psicofisiche adatte per apprezzarli pienamente dal vivo.
Si fa quindi ritorno a generi più “inquadrati”, con due delle esibizioni più attese in assoluto: Emperor e Opeth. Durante l’attesa per i primi, c’è modo di constatare come, sul palco accanto, gli Hatebreed stessero mettendo a ferro e fuoco un pubblico coinvolto al cento per cento, con un carismatico Jasta a guidarne le movenze e la risposta. Al termine della loro esibizione, Ihsahn e compagni salgono sul palco inondato da luci bianche e verdi e, senza troppi complimenti, sparano su un pubblico numerosissimo tutto “Anthems To The Welkin At Dusk”. Difficile sottrarsi al moshpit se si è sottopalco, praticamente incessante e con solo qualche secondo di tranquillità concesso sulle parti più atmosferiche. Conclusa la celebrazione del disco, la mattanza continua con la tripletta finale costituita da “Curse You All Men“, “I Am The Black Wizards” e la fondamentale “Inno A Satana“, sulla quale il putiferio raggiunge il suo apice. Un’esperienza irripetibile a dir poco. Subito dopo, un altro gruppo fondamentale nel bill del festival, gli Opeth. Il quintetto svedese si trova fra le mani una patata parecchio bollente, in relazione al loro trend stilistico attuale ed al fatto che suonino tra due band come Emperor e Suffocation, non proprio musica leggera. Mikael Åkerfeldt sarà pure stronzo in certi frangenti, ma non certo stupido: sa quello che si aspettano i fan presenti e quindi risponde a tono con una tra le scalette migliori che ci potessimo aspettare in questo momento, con perle del calibro di “Demon Of The Fall“, “The Drapery Falls“, “Deliverance” ed altre, relegando le ultime tre fatiche discografiche ad appena due brani. Esecuzione ovviamente impeccabile, pioggia leggera sul finale e tutti più che contenti.
La pioggia inizia a farsi sempre più forte fino a raggiungere livelli quasi insostenibili, costringendomi a sentire molto di sfuggita i Suffocation e saltare del tutto i Rotting Christ, ma entrambe le band hanno goduto di un folto pubblico di coraggiosi che non si sono lasciati scalfire dal temporale.
DAY 3
In questo terzo giorno, il richiamo del palco si palesa a suon di barbe e sludge con i rocciosi Crowbar: Kirk Windstein e soci sfornano una prestazione solidissima, con un ottimo mix di brani lenti ed altri più veloci, ma tutti estremamente coinvolgenti grazie anche al carisma del cantante di New Orleans e alla sua voce stile carta vetrata. Di corsa in Nuova Zelanda, poi, con gli opprimenti Ulcerate. Il trio è inattaccabile musicalmente, la maestria e la padronanza dei propri strumenti nel suonare un personalissimo death metal di stampo tecnico sono a livelli decisamente superiori. Unica pecca i suoni un po’ indecifrabili, purtroppo un problema costante nelle prime file del tendone del Metalgate.
È in questo momento che accade ciò che tutti temevano: un nuvolone enorme arriva di gran carriera sopra la Fortezza, scatenando un temporale senza precedenti che costringe ad uno stop di mezzora i palchi principali durante l’esibizione dei Sacred Reich, causando uno slittamento di tutte le performance successive. Si ritorna quindi al Metalgate con una doppietta tanto valida quanto eterogenea: i Possessed, come se ce ne fosse ancora bisogno (qui il report della data di Lubiana), si confermano ancora una volta dei maestri con il loro death primordiale e l’infinita attitudine di Jeff Becerra accompagnato da coloro che, di fatto, sono i Sadistic Intent. A seguire, il francese Igorrr (alias Gautier Serre), punta di diamante dell’avantgarde d’oltralpe che divide in maniera più che mai netta il pubblico accorso. Il mix di breakcore, trip hop e metal estremo ha comunque ottima presa sugli spettatori di più ampie vedute, che ballano sui ritmi accompagnati dalle voci agli antipodi di Laurent Lunoir, conciato come un uomo preistorico, e dell’angelica Laure De Prunenec. Si ritorna sui palchi principali, in tempo per l’immancabile “Inis Mona” di ciò che resta degli Eluveitie e per lo show dei Trivium, ormai caratterizzato da tanto mestiere ma che sembra comunque apprezzato dai fan della band californiana.
Arriva quindi il momento del cambiamento last minute più importante del festival (e di molti altri eventi europei): non me ne voglia il buon Trey Azagthoth, ma il forfait dei Morbid Angel in favore dei Carcass sembra aver colmato di gioia un nutrito numero di fan nel continente, compreso il sottoscritto. Jeff Walker e soci prendono possesso del palco con un concerto al cardiopalma, quasi senza soluzione di continuità, in cui si spazia dagli albori dell’esordio con “Genital Grinder” fino all’ultimo “Surgical Steel”, passando per ogni singolo album in mezzo. Dalle più grezze “Exhume To Consume” e “Reek Of Putrefaction” alle immancabili “Corporal Jigsore Quandary” e “Heartwork“, tra le altre, fino all’orecchiabile ed ugualmente apprezzata “Keep On Rotting In The Free World“. Bill Steer, per cui il tempo sembra non passare mai, continua ad impartire lezioni di stile, mentre la chitarra di Ben Ash è praticamente assente dal mix, unico lato dolente nell’esibizione dei britannici. Ottima anche la prova di Dan Wilding alla batteria, in grado di fare propri i pezzi classici inserendo una buona dose di groove. Menzione d’onore (anche da parte di Walker in persona) nei confronti di Eluveitie, Doomas e Sacred Reich per aver prestato parte della strumentazione alla band, a causa di problemi logistici.
Ultimo atto di spessore di questo intenso venerdì, con nientepopodimeno che gli Electric Wizard. Assenti l’anno scorso per problemi burocratici, Jus Oborn e compagni si rifanno con gli interessi creando atmosfere sulfuree e mefistofeliche sia sonoramente che visivamente. I ritmi sono ovviamente lentissimi, ma ciò non scoraggia i fan che si lasciano andare ad un headbanging a velocità dimezzata per tutta la durata del concerto, che spazia tra i vari album focalizzandosi di più su “Witchcult Today”. Sulle note dei Clawfinger a termine giornata, è tempo quindi di tornare in tenda in vista del quarto e ultimo giorno.
DAY 4
L’ultima giornata inizia, come al solito, con un groppo in gola per la fine imminente dell’evento. Cercando di non pensarci, assistiamo per primi ai francesi Svart Crown: la band blackened death si esibisce in una performance degna di nota, forse poco originale ma di sicuro impatto sul pubblico che, purtroppo, inizia a farsi già meno numeroso (vari gli spettatori che hanno smontato le tende e si sono allontanati dal festival in questa quarta mattinata). Dopo una rapida chiacchierata con Vogg dei Decapitated si va a sentire proprio i polacchi: il loro show è fortemente incentrato sull’ultima fatica discografica, “Anticult”, e il quartetto non fa prigionieri sfornando una performance tritasassi che spazza via le opinioni contrastanti sull’ultimo album e su tutto il nuovo corso post-reunion in generale. Subito dopo, uno degli accavallamenti più dolorosi del festival con i belgi Oathbreaker sullo Jägermeister e i tedeschi Mantar sul Metalgate. Per limitare i danni scelgo di vedere un po’ e un po’: la bellissima Caro Tanghe guida l’esibizione del quartetto delle Fiandre con la sua voce ora angelica, ora urlata e disperata, per un post-hardcore di un’intensità considerevole e che tiene in pugno il pubblico in adorazione. Il duo teutonico, dal canto suo, fa casino sul piccolo palco come se fossero in dieci, mostrando un contatto con il pubblico notevole (tanto che il cantante e chitarrista Hanno offrirà la sua birra ad un ragazzo dalla “faccia triste” in prima fila).
Questo intenso sabato continua con un rapido sguardo ai Tiamat, dei quali bastano cinque minuti per capire il livello bassissimo dell’esibizione con il frontman Johan Edlund che blatera cose senza senso. Tutt’altra cosa i Vallenfyre: definirli un side project di Greg Mackintosh dei Paradise Lost sarebbe troppo riduttivo, dato che il combo del West Yorkshire vomita addosso al pubblico una delle esibizioni migliori di questo Brutal Assault, condito da un umorismo tipicamente british dell’ormai biondo vocalist. La setlist prende a piene mani dall’ultimo, ottimo “Fear Those Who Fear Him” senza tralasciare le prime due fatiche in studio, riuscendo anche nell’intendo di scatenare the slowest circle pit in history durante la nuova “An Apathetic Grave“.
Due degli atti finali del nostro festival vedono due dei nomi più in vista nel panorama, ovvero The Devin Townsend Project e Mayhem. L’istrionico artista canadese non delude i fan con uno show solido e senza sbavature, forse un po’ stantio a tratti ma che ha risollevato le mie speranze (visto che l’andazzo in studio di Townsend sembra ormai arenato sui soliti binari djent/prog). Brani come “Kingdom“, “Supercrush” o “Hyperdrive” hanno fatto cantare tutta la folla, passando per classici ormai consolidati come “Deadhead” e un paio di richiami a Ziltoid dal recente “Z2 – Dark Matters”. I norvegesi, come al solito, tengono il palco in maniera eccelsa ricreando atmosfere gelide, ma questa volta è possibile udire chiaramente tutti gli strumenti e godere pienamente dell’intero “De Mysteriis Dom Sathanas”. La voce di Dead registrata ad introdurre “Freezing Moon” (forse un po’ kitsch, ma tant’è), il giro di basso su “Life Eternal“, le conclusive “Buried By Time And Dust” e la title track: tutti elementi e brani che hanno fatto e continuano a fare la storia del metallo più nero, facendo impallidire gran parte delle produzioni successive all’anno nefasto 1994.
Ma non c’è metallo nero che tenga per chiudere un festival, se dopo suonano i padroni di casa Gutalax. Clima festaiolo con rotoli di carta igienica, animali gonfiabili, palloni da spiaggia e addirittura un gatto al guinzaglio. Il pubblico balla male su brani dai titoli improbabile come “Toi Toi Story“, “Fart Fart Away“, “Fart And Furious” e molti altri, per un epilogo da incorniciare.
Tanto di cappello, quindi, all’organizzazione di un festival che continua a migliorarsi anno dopo anno, riuscendo a risolvere nel migliore dei modi imprevisti quali cancellamenti e tempeste e a scusarsi con i fan per problemi come il running order sbagliato sui programmi, anche questo nel migliore nei modi: offrendo fiumi di birra a metà prezzo per l’ultima, grandiosa serata.