Afraid of Destiny, Scuorn, Attic, Antimateria, Saor, Acherontas, Valkyrja e Marduk a cura di Jacopo Silvestri
Sojourner, Archgoat e Tsjuder a cura di Arianna Falco
Arriva all’undicesima edizione il celebre Black Winter Fest, ormai il festival italiano più conosciuto in ambito Black Metal, e per la prima volta non si tiene al Circolo Colony di Brescia, bensì al Campus Industry di Parma, location che si è dimostrata adatta a ospitare eventi del genere.
Le band che si sono esibite sul palco del locale emiliano sono undici, e ben nove di esse provengono dall’estero, il che fa intendere quanto questa manifestazione stia crescendo molto, anno dopo anno.
L’affluenza è discreta fin da subito, e quando gli Afraid of Destiny si apprestano ad aprire le danze i presenti sono già abbastanza, specialmente tenendo a mente il fatto che la loro esibizione è cominciata molto presto rispetto agli orari usuali dei concerti.
Essendo chi vi scrive un membro della formazione veneta, non è possibile fornire un’analisi sulla loro performance, in quanto sarebbe di parte e troppo soggettiva. In ogni caso, la possibilità di vivere un evento di queste dimensioni in prima persona ha permesso al sottoscritto di constatare il buon livello dell’organizzazione del festival, nonostante dei piccoli imprevisti avvenuti durante lo svolgimento.
Successivamente è il momento degli Scuorn. Il progetto nasce dalla mente del napoletano Giulian, all’anagrafe Giuliano Latte, il quale è accompagnato per le esibizioni dal vivo da vari musicisti impegnati in altre realtà originarie dell’Italia meridionale.
Il primo album della band, “Parthenope“, pubblicato l’anno scorso, ha ottenuto subito un discreto successo e ha presentato la proposta dal mastermind, il quale cerca un’unione tra il metal estremo e la cultura partenopea con i suoi miti ed elementi storici, tramite un Black Metal dove spiccano molti elementi sinfonici.
Nella mezz’ora a disposizione, i Nostri hanno fatto decisamente buona impressione, risultando coinvolgenti e abili nel proporre dal vivo dei pezzi molto vari, senza mai tralasciare alcun elemento. Una soddisfacente conferma del potenziale a disposizione, da parte loro, di buon auspicio per il futuro di una delle realtà più promettenti del panorama italiano.
Dopo l’apparizione di due realtà nostrane, gli Attic sono il primo gruppo estero del festival. Lo stile dei tedeschi si discosta dal genere prediletto della serata, ma l’atmosfera è comunque pervasa da un’aura misteriosa, grazie anche a degli elementi scenici presenti sul palco, come i candelabri e il crocifisso al contrario.
L’heavy metal classico suonato dal quintetto risulta pieno di buone idee, pur essendo molto derivativo, specialmente per la voce di Meister Cagliostro, molto simile al timbro del celebre King Diamond. Nonostante questa somiglianza la performance offerta dal cantante è buona, pur essendo penalizzata da dei suoni un po’ impastati.
I brani suonati sono estratti da entrambi i lavori in studio della formazione, ovvero il debutto “The Invocation“, datato 2012, e il suo successore, “Sanctimonious“, pubblicato cinque anni dopo.
La curiosità è molta quando arriva il turno dei Sojourner , progetto dalla provenienza internazionale fondato dai neozelandesi Chloe Bray, Mark Lamb e Mike Wilson, dall’italiano Riccardo Floridia e dallo svedese Emilio Crespo.
I cinque, sotto l’etichetta nostrana Avantgarde Music, hanno già rilasciato “Empires of Ash” (2016) e “The Shadowed Road” (2018), attirando l’attenzione degli amanti dell’Atmospheric Black Metal con influenze folk.
Per quanto la proposta musicale sia più che valida, la performance risulta poco convincente: i Nostri non sembrano essere particolarmente valorizzati dai suoni, per cui purtroppo la splendida voce della Bray non perviene affatto durante i primi pezzi. Sicuramente un’esibizione che lascia l’amaro in bocca.
Si continua con un’altra band formatasi recentemente: Antimateria, progetto solista di Ahma.
Il buon debutto “Valo aikojen takaa” (2016) è stato accolto positivamente dagli ascoltatori del genere, e in questa occasione la curiosità è molta per la prima esibizione sul suolo italiano da parte del finlandese, accompagnato per l’occasione da tre colleghi.
Nei quaranta minuti a disposizione nessuna pausa, interazione coi presenti o altro, ma solo un Black Metal classico, che nel corso del concerto ha creato un’atmosfera glaciale e asfissiante, manifestando un’ottima resa dal vivo.
Peccato solo per dei problemi tecnici che hanno costretto a delle pause e a un breve taglio della scaletta: per il resto prova molto incoraggiante, come si è potuto notare dall’ammirazione con la quale gran parte dei presenti ha osservato ciò che è successo sul palco.
Tocca ora a un’altra one-man band, Saor, frutto della mente dello scozzese Andy Marshall, accompagnato da una formazione ormai consolidata e rafforzata dalla recente aggiunta di Paolo Bruno, conosciuto per la sua attività con Thy Light, qui chitarrista.
Si cambia totalmente registro rispetto alla prestazione di Antimateria: se prima regnava l’oscurità, ora sale in cattedra una buona dose di melodia, che rimanda alle origini del progetto, influenzato dalla tradizione e dalla natura celtica. Gran parte delle aggiunte atmosferiche son gestite dal violinista Lambert Segura, il quale non si presenta solo come una comparsa occasionale, bensì come un tassello fondamentale per il raggiungimento di un risultato soddisfacente.
Un’esibizione che va a qualificarsi tra le migliori dell’intera giornata, specialmente grazie alla sua seconda metà, composta da “Aura” e da “Tears of a Nation“, brani che risultano allo stesso tempo coinvolgenti e aggressivi.
Giunto il momento degli Acherontas ci si allontana momentaneamente dalla scena nord europea, rappresentata da gran parte dei gruppi presenti all’evento; il progetto che vede il cantante Acherontas V.Priest come unico membro stabile della formazione è tra i migliori esponenti della scena greca e per questo avvenimento propone principalmente tracce estratte dall’ultimo lavoro in studio, “Faustian Ethos“.
Si nota fin da subito come i sette album pubblicati in undici anni di attività, senza mai calare di livello, abbiano fornito alla band un’ottima esperienza che permette loro di offrire una buona prestazione.
La loro performance si può definire ritualistica, un elogio all’occultismo molto profondo ed evocativo che conferma le doti a disposizione degli ellenici.
Successivamente, arriva l’ora dei Valkyrja, formazione che sta ottenendo un buon successo recentemente tramite una proposta molto legata al Black Metal classico, forse anche troppo. Difatti, il loro concerto si fa apprezzare, ma pecca di personalità, e nei tre quarti d’ora a loro disposizione il quartetto non convince particolarmente, anche per dei suoni non ottimali.
I Nostri stanno promuovendo la loro quarta fatica, “Throne Ablaze“, e buona parte dei pezzi sono estratti da esso, come la title-track e “Opposer of Light“, ma non mancano i rimandi ai loro lavori precedenti, quali “Frostland” e “Oceans to Dust“, estratti rispettivamente da “The Invocation of Demise” e “Contamination“, primi due album del gruppo.
Ci si può ritenere soddisfatti dalla loro presenza scenica, con le tenebre che regnano durante l’intera durata della performance, ma dal punto di vista musicale manca ancora qualcosa che permetta agli svedesi di convincere pienamente.
È finalmente la volta degli Archgoat, terzultimi nel running order.
I finlandesi, ormai punti di riferimento per i più fervidi seguaci del Black/Death marcio e blasfemo, non le mandano certo a dire e regalano cinquanta minuti di brutalità inaudita, con i riff letali di “Jesus Christ Father of Lies“, “Lord of the Void” e “Grand Lucifer Theofany” che emanano sacrilegi e oscenità.
Il muro sonoro di Ritual Butcherer e Lord Angelslayer non dà tregua: pochissima interazione col pubblico, gelo polare, solo Black Metal putrido e sparato in faccia al popolo del Campus Music Industry, entusiasta per la prestazione sonora dei finnici. Del resto, non può essere altrimenti, quando puoi vantare di aver dato alla luce macigni come “The Luciferian Crown” (2018), “The Apocalyptic Triumphator” (2015) e “Whore of Bethlehem” (2006).
Il pubblico del Black Winter Fest sembra non aspettare altro e, tra cori, bestemmie e delirio all’ennesima potenza, non si rischia affatto di esagerare quando si afferma che gli Archgoat, a gran merito, hanno portato sul palco la performance più attesa dell’intero festival.
Senza nulla togliere agli headliner, Lord Angelslayer, Ritual Butcherer e Goat Aggressor si confermano i protagonisti di questa undicesima edizione del Black Winter Fest. Ineccepibili.
Sono ormai le 23 e tocca agli Tsjuder, che portano alta la bandiera del Black Metal norvegese di altissimo livello e scaldano il palco per gli svedesi Marduk.
Grandissima presenza scenica, ottima resa sonora, Nag e soci non hanno di certo bisogno di presentazioni di alcun tipo. Il set degli Tsjuder è un viaggio nel metal estremo contrassegnato da brani culto ormai diventati veri e propri inni come “Mouth of Madness” e “Unholy Paragon“, rispettivamente sesta e settima traccia di “Desert Northern Hell” (2004).
Gli scandinavi mandano il pubblico in visibilio totale grazie all’ottima esecuzione di due cover: “INRI” (dei Sarcofago) e “Sacrifice” (dei Bathory), che suggellano sessanta minuti di Black Metal puro e devastante, con una delle prestazioni più memorabili dell’evento, tra suoni pieni e corposi e un pubblico che non smette di acclamarli. E possiamo dire con certezza che si meritano tutti gli applausi.
Giungiamo ora al piatto forte della serata, l’esibizione dei Marduk.
Dopo svariate ore di performance una di seguito all’altra, all’appello manca solo l’offensiva finale, e la partenza senza esitazioni dei quattro svedesi con “Panzer Division Marduk” travolge subito i presenti con tutta la sua violenza. Per quanto talvolta possano apparire svogliati (d’altronde, conoscendoli, ci si può aspettare un atteggiamento del genere da parte loro), l’impatto dei loro brani è notevole, con la scaletta che alterna “Of Hell’s Fire” e “Burn My Coffin“, ovvero grandi classici della loro discografia, alle più recenti “Werwolf” e “Equestrian Bloodlust“, estratte dall’ultimo “Viktoria“. Per quanto riguarda le ultime composizioni citate, si nota con piacere come nonostante non abbiano convinto molto sul disco, dal vivo siano molto efficaci. Al netto di frequenti pause tra i pezzi che smorzano un po’ il tutto, lo show procede con un livello di qualità costante, senza grandi sorprese, andando a chiudere un festival ben riuscito sotto ogni aspetto: uniche note negative, un lieve ritardo nelle esibizioni e dei suoni talvolta non ottimali, ma son problemi sui quali si può chiudere tranquillamente un occhio.