DEEP PURPLE – Whoosh!

Un’onomatopea malinconica. Il suono del vento che sospira, del tempo che scorre e delle conseguenti riflessioni che, dopo oltre mezzo secolo di attività musicale, porta ad affrontare. Questo è “Whoosh!“, il ventunesimo studio album dei leggendari Deep Purple.

Tra le varie questioni ambientali, sociali e politiche il gruppo di Ian Paice affronta il tema del passaggio dell’uomo sul pianeta Terra, sempre più incerto e instabile, durante il corso della sua storia. Nulla di particolarmente originale se non lo si metaforizza con il passaggio della loro stessa carriera nel mondo della musica.
Ed è proprio qui che sorge la fatidica domanda: c’era davvero bisogno di un nuovo album dei Deep Purple?

Se pensate di aspettarvi un ritorno ai gloriosi album a la “In Rock”, “Machine Head” o “Burn” beh, mi dispiace deludervi, ma state chiedendo un qualcosa di razionalmente impossibile.
Se pensate che, nonostante tutto, questo sia l'”ennesimo capolavoro” di una band immortale, mi dispiace di nuovo, vi consiglio di non proseguire con le successive righe.
Se invece volete accogliere quest’ultima release in totale consapevolezza e senza lasciarvi andare alle solite obiezioni trite e ritrite come “Gillan non tiene più Child In Time” (ragazzi, ha settantacinque anni) o “i veri Deep Purple sono con Blackmore e Lord” allora, ma solo ad allora, posso darvi il benvenuto a questa nuova recensione e augurarvi una buona lettura.

Siamo di fronte al presente dei Deep Purple. Il gruppo inglese, con quello che si pensava essere già l’ultimo disco “Infinite” (rilasciato nel 2017), dimostrò di saper continuare a fare egregiamente buona musica, nonostante l’età e nonostante le migliori cartucce fossero già state sparate da decenni.

“Whoosh!” non è da meno, sono molti i virtuosismi di alto livello che troviamo in una buona fetta dell’album, come nella solare “Nothing at All” o in “No Need to Shout”, dove le prestazioni di Steve Morse e Don Airey costruiscono una sfera musicale dall’innegabile stampo settantiano, seppur in chiave moderna, proprio come nella successiva tenebrosa e quasi gotica “Step by Step”.
Non sempre però le parti strumentali ben strutturate dei Nostri riescono a sfornare brani di un certo spessore. “Throw My Bones” così come “Drop the Weapon” non spiccano particolarmente, complice della poca grinta di Gillan nonostante, come già appurato, le prestazioni singolari di tutti gli altri musicisti siano molto valide.

I cori a la Beach Boys di “We’re All the Same in the Dark” possono suonare fuori luogo nel tentativo di smarcarsi dalla classica autocelebrazione scontata che, questo bisogna dirlo, i “ragazzi” sono riusciti a evitare saggiamente. In tutti i passaggi del disco infatti, la parabola musicale sperimenta una buona ispirazione richiamando, ad ogni modo, i vecchi e sani complessi Purpleiani, concatenando sonorità di Hammond e chitarre elettriche come nelle progressive “Man Alive”, “The Power of the Moon” e “The Long Way Round”.

“What the What” è innegabilmente un omaggio a Little Richard (scomparso lo scorso 9 maggio) e a tutto il rock n’ roll di fine anni 50, genere che ispirò i Deep Purple e che li portò a evolvere la propria intuizione musicale fin dove ben conosciamo.

Non mancano parentesi strumentali interessanti come “Remission Possible” e la rivisitazione della storica “And the Address” presente nell’album d’esordio “Shade Of Deep Purple” (datato 1968) composto da Jon Lord e Ritchie Blackmore, altro gradevole tributo ai due musicisti che hanno contribuito alla crescita di una delle band più importanti della storia del rock.

Chiude l’album “Dancing in My Sleep”, ennesima buona composizione senza aggiungere nulla di più, permettendoci finalmente di dare una risposta alla domanda posta ad inizio articolo.
C’era davvero bisogno di un nuovo album dei Deep Purple?

Assolutamente no, ma non fraintendete. Gillan, Paice, Morse, Glover ed Airey si confermano essere autori degni del nome che la band porta. Tecnica e dinamismo sembrano non aver mai abbandonato le grandiose capacità compositive del gruppo originario di Hertford. Ma stando a quanto lo stesso Paice dichiarò sull’importanza del supporto verso le band emergenti, questa release rischia di essere controproducente, deviando le attenzioni verso il proprio gruppo che di sicuro non ha bisogno di incrementare il proprio pubblico né tantomeno sperare di riuscirci con questo album.

“Whoosh!” rimane un disco che supera la sufficienza per la sua indiscutibile qualità, senza però avvicinarsi lontanamente a soddisfare le aspettative degli utopisti che speravano un ritorno agli antichi fasti.

Una volta dato qualche ascolto, quasi in segno di rispetto, apprezzando tutto il buono che il profondo viola è riuscito nuovamente a proporci con questo ventunesimo lavoro, torneremo ad ascoltarci “Made In Japan” a tutto volume.

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