Il nu-metal era (ed è) musica rabbiosa, in parte derivata dal trauma infantile, dai problemi adolescenziali e dalla disperazione dell’America rurale e suburbana al di fuori della cosiddetta unica cultura, ma la sua aggressività e il suo immaginario suonavano altrettanto bene al Gods Of Metal in Italia, all’Ozzfest in America, agli skate park, al Warped Tour, nei programmi come MTV, nel mosh pit e in altri luoghi dove i fan di band heavy metal e chi ascoltava hip-hop si potevano trovare in sintonia.
Promossi da abiti misti tra felpe larghe hip-hop, catene rock e borchie metallare i generi alternative e nu metal vedono la luce a metà degli anni ’90 e il tramonto circa 20 anni dopo.
Oggi vi raccontiamo quali dischi usciti nel 2000 sono secondo noi i più rappresentativi e divertenti dello stile. Buona lettura!
Linkin Park – Hybrid Theory
Penso di aver letto e sentito qualsiasi parere su questo disco, un po’ perché era il loro primo album, e un po’ perché questa nuova band (all’epoca) se ne era uscita con un disco nu metal molto commerciale. Negli anni mi sono posto molte domande: disco bello o disco brutto? Studiato a tavolino o puro talento musicale? I Linkin Park sono l’ennesima boyband o 6 ragazzi che crescendo diventeranno una vera band? Inutile dirlo, la verità non la sapremo mai. Di sicuro ci sono due cose: è un disco che ha venduto un sacco (nota positiva per loro ed il mondo musicale in generale) e che ha fatto da tramite tra i ragazzini dell’epoca e quelli di 10 anni dopo, portandoli nel mondo del rock/heavy metal.
Abbiamo visto i Linkin Park cambiare nel corso del loro tempo, allontanarsi e riavvicinarsi diverse volte alle sonorità di questo cavallo di battaglia chiamato “Hybrid Theory”. Prodotto da Don Gilmore, uscito nel 2000 con ben 4 singoli estratti che diventeranno più o meno tutti famosi, i giovincelli daranno del filo da torcere a band come Limp Bizkit, Korn e Deftones. Con il gruppo di Fred Durst (Limp Bizkit), i Linkin Park hanno in comune la passione per il crossover, per le nuove sonorità, possedendo la capacità di mischiare i ritmi aggressivi propri del metal con la musica della strada: il rap; “With You“, “In The End” e “A Place For My Head” ne sono alcuni esempi.
A mio parere, è un disco molto commerciale e facilmente orecchiabile. Capolavoro del nu metal molto ben riuscito e qui ci tengo a sottolinearlo: un disco nu metal come questo, negli ultimi 10 anni (forse di più), non si è mai più visto/sentito. Un lavoro che è stato amato e odiato, ma di questo ci interessa poco, ai fan piace e i non fan cantano lo stesso, il che è molto importante e significa che ha raggiunto una notorietà notevole.
Un disco con una copertina molto particolare, (una delle più belle per il suo significato), il soldato rappresenta l’aggressività e la dinamica del metal/hard rock, le ali della libellula la leggerezza e l’orecchiabilità dell’hip hop. Un disco malinconico per quanto riguarda le tematiche, parla dei problemi dei giovani, dell’amore incontrastato, della rabbia e di come l’aggressività intrinseca possa essere capace di tramutarsi anche in emozione e melodia, soprattutto con “Forgotten“, “Runaway” e “Crawling“.
Curiosità: Un altro brano pubblicato è stato “Points of Authority“, il quale non uscì mai come singolo, ma ne fu girato un videoclip composto da riprese da alcuni concerti del gruppo con alcune scene di backstage tratte dal DVD “Frat Party At The Pankake Festival”.
Nel box dei vent’anni del disco, la sua edizione più bella (composta da svariati vinili, poster, libro, cd ecc), in un live registrato a San Francisco troviamo il logo dei “Trasformers” sul piano su cui poggia il mixer e il giradischi Mr.Hahn, cosa curiosa perché solo 9 anni dopo la band avrebbe preso parte a ben 3 diverse colonne sonore del film diretto da Michael Bay.
Mentre i DVD hanno avuto un errore nello scambio di masterizzazione, ovvero nel dvd “Frat Party At The Pankake Festival” troviamo due live registrati a cavallo tra il 2000/2001 e nella custodia dei due concerti troviamo il dvd appunto “Frat Party At The Pankake Festival”.
Papa Roach – Infest
Dopo il discreto debutto autoprototto “Old Friends From Young Years”, i Papa Roach pubblicarono il 25 aprile 2000 il colosso “Infest”, uno degli album più significativi non soltanto della band ma dell’intero genere nu metal, che scalò con estrema facilità le classifiche grazie a brani del calibro di “Broken Home”, “Dead Cell”, “Between Angels and Insects” senza contare dell’ancora ascoltatissima “Last Resort”.
Formatasi nel 1993 a Vacaville (USA), la band propone ritmiche altamente coinvolgenti e folgoranti, ricche di elementi alternative, hardcore e rap metal che riuscirono non solo a reclutare nuovi “seguaci” del movimento, ma addirittura a catturare l’attenzione di molti amanti del grunge, uno dei generi più in voga di quegli anni. I testi, incentrati sui problemi familiari ed esistenziali del cantante Jacoby Shaddix, spingono a sfogare la rabbia repressa di chiunque stia ascoltando il disco in maniera a dir poco esplosiva e liberatoria. La ciliegina sulla torta non potrebbe che non essere “Last Resort” trattando l’argomento del suicidio (e dei motivi che purtroppo spingono molto spesso a commetterlo). Il brano diventò fin da subito l’inno del gruppo e, ancora oggi, non si può non adorare per le sue indistinguibili sonorità rockeggianti. Incredibilmente tende ad essere una di quelle canzoni che riescono ad avvicinare chiunque con estrema facilità al mondo del rock e del metal, complice il fatto dell’energia inconfondibile che la band è riuscita a dimostrare con la pubblicazione di questa pietra miliare del genere.
Linea 77 – Ketchup Suicide
Volete dirmi che i Linea 77 non c’entrano nulla in questa classifica? Non è un caso che questi cinque ragazzi torinesi abbiano fatto successo in Inghilterra e siano stati messi sotto contratto da una buona etichetta (Earache Records) particolarmente dedita a suoni duri ed estremi. Lo sapevate che questa etichetta aveva deciso di ristampare il loro precedente disco intitolato “Too much happiness… makes kids paranoid”, e lanciarlo sul mercato mondiale? No? Ora lo sapete!
C’è poco da dire di per sé, “Ketchup Suicide” è un lavoro molto ben fatto, molto compatto, che è basato su un crossover di stampo americano in stile Deftones e Korn. Ragazzi parliamo dei Linea 77, una band italiana degli anni ‘90, il sound, decisamente più personalizzato rispetto al disco precedente, si mantiene su una linea aggressiva ma melodica allo stesso tempo, tra un crossover anni ‘90, un nu metal e un alternative metal tamarro, un mix ben riuscito e molto cattivo come possiamo sentire in canzoni come “Tadayuki Song”, “Miss It” e “Potato Music Machine”. Nitto è l’anima dura della band, l’espressione sonora della violenza metropolitana che ricorda la città di Torino, assale le orecchie dell’ascoltatore con il suo scream cattivo e grezzo, mentre le note di “Cacao” e “Smile” scorrono nello stereo.
Disco che a distanza di anni viene ancora ascoltato dai fan e non solo, ed è ritenuto ancora oggi uno dei migliori lavori della band torinese. Il basso di Dade, strumento che viene accantonato da molte band e sottovalutato, trova qui il suo momento di protagonismo, arricchendo il sound del disco e guidando la ritmica. Da segnalare il grosso muro di suono innalzato da una sola chitarra, una sezione ritmica cattiva e precisa, ma soprattutto, l’intreccio delle due voci di Nitto ed Emo, sono le coordinate principali e fondamentali della formula chiamata Linea 77. Nella title-track e nella cover finale “Walk Like An Egyptian” è stata utilizzata anche una voce femminile, scelta decisamente azzeccata, allucinata e tremendamente compatta.
Le canzoni sono tutte ascoltabili, non escono troppo dal sound hip-hop/crossover. Il risultato è un ottimo album, in cui non trovo a distanza di 20 anni punti deboli di stile musicale e song writing, scorre via velocemente senza problemi, e pone i Linea 77 su un gradino più alto rispetto a dove si erano piazzati con il lavoro precedente, sia sul panorama italiano che internazionale.
Piccola curiosità: Rocksound Italia dedicò al gruppo la copertina del numero di novembre 2000, mentre nel Marzo 2001 MTV Europe gli dedicò una trasmissione intera, “Linea 77 Select”.
Limp Bizkit – Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water
“Ladies and Gentlemen, Introducing The Chocolate Starfish And the Hot Dog Flavored Water”
Fred Drust, uno dei vocalist più odiati e amati nella storia del rock/metal, con questo inconfondibile annuncio presenta con l’opener “Hot Dog” uno degli album più emblematici non solo della storia del nu metal ma di tutta la musica alternative. Dopo le numerose vendite di “Three Dollar Bill, Y’all $” (1997) e “Significant Other” (1999), i Limp Bizkit collaborarono alla colonna sonora del famoso film “Mission: Impossible 2” con il singolo “Take a Look Around”. Il successo sia del film che del brano inedito portò il gruppo di Jacksonville a registrare il terzo studio album “Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water”, titolo che contiene nella prima parte una metafora dell’intestino retto (intuibile anche dalla copertina), il “Chocolate Starfish”, e nella seconda, “Hot Dog Flavored Water”, il riferimento del presunto sapore di carne di un tipo di bibita chiamata Crystal Geyser, che durante un tour il chitarrista Wes Borland vide ad una fermata di camion.
Prodotto da Terry Date con più di un milione di copie vendute nella prima settimana, il disco diventò indubbiamente il punto forte della band. Con un sound rock/metal improntato genialmente sul movimento rap/hiphop, i Limp si buttarono nella mischia prepotentemente con brani divertenti e trascinanti come “My Generation”, “My Way” e con soprattutto la pluriascoltata “Rollin’”. “Alright partner, keep on rollin’ baby, you know what time it is”. Vero e proprio inno del Limp Bizkit, “Rollin’” vinse il premio come miglior video rock agli MTV Video Music Awards e sì, stiamo tutti pensando la stessa cosa in questo momento: quello si che era un MTV degno del nome che porta.
Come se la qualità e la popolarità del gruppo non fosse abbastanza, al disco collaborarono anche Method Man dei Wu Tang Clan, Scott Weiland degli Stone Temple Pilots (Hold On), Xzibit (Getcha Groove On), e il comico Ben Stiller (nella traccia nascosta successiva all’Outro).
Innovativo e travolgente, “Chocolate Starfish…” è uno di quei dischi che ancora oggi viene ascoltato e apprezzato sia da chi non vuole porre limiti allo sviluppo ed evoluzione del rock e metal, sia da chi invece ha le proprie radici nell’hiphop e nel rap, lasciandosi trascinare volentieri in un mondo differente, alternativo ma allo stesso tempo degno di nota.
Guano Apes – Don’t Give Me Names
A volte sono stati etichettati come i No Doubt metallari, o una band sulla falsa riga dei Skunk Anasie, I Guano Apes hanno avuto la loro importanza nel genere alternative, appunto perchè alternativi dalle classiche band della fine degli anni ‘90/inizio 2000. Sebbene abbiano avuto un successo commerciale limitato a Stati Uniti ed Europa, I tedeschi Apes hanno spopolato e venduto tantissimo in modo particolare nella loro patria, dove questo album è entrato nelle classifiche pop al numero 1 della settimana della sua uscita all’inizio di maggio 2000.
Le canzoni composti da membri con gusti diversi sono basate sull’hard rock/alternative, ma con vari elementi come pop, rap e funk. In questo disco a differenza dal primo, la band vuole far sentire un sound leggermente diverso. Tra questi, quello che spicca sicuramente di più è la presenza di Sandra, che è un pilastro di questo gruppo, cantante complessivamente brava, senza nessuna dote particolare, ma che con la sua voce riesce a cantare e trasmettere molto all’ascoltatore, sia nelle parti lente e melodiche che in quelle incazzate come in canzoni quali “Dodel Up”, “Anne Claire”, “Innocent Greed” e Money & Milk”.
La musica è molto compatta e di facile orecchiabilità, i riff sono facili da imparare a memoria anche dopo il primo ascolto, nota molto positiva per il disco che ha prodotto la band. La cover di “Big In Japan” degli Alphaville è stato un pezzo che ha riscosso un buon successo e ha sicuramente aiutato la band ad emergere e a vendere molte copie all’epoca dell’arrivo del disco sugli scaffali dei negozi di CD.
È un lavoro crossover che assume aspetti anche leggermente punk, ma si possono anche sentire sfumature di band come Rage Against the Machine, Korn, Limp Bizkit, ed elementi hard rock classico mainstream.
Complessivamente è un bel disco, che è rimasto nella storia e ancora oggi è molto ascoltato e ricordato come momento top della band; i dischi successivi sono discreti, ma nessuno tocca un livello tale da arrivare alla qualità, stesura e songwriting di questo lavoro.
I Guano Apes sono probabilmente molto più adatti al mainstream americano rispetto che a quello europeo, un fattore che si è poi rivelato funzionante, e tradotto in un buon riconoscimento da parte degli statunitensi.
Strana curiosità: ad oggi solo una traccia di questo disco, è nella top 5 delle più ascoltate sul loro profilo Spotify.
Godsmack – Awake
Il 31 ottobre 2000 esce il secondo disco dei Godsmack, band che ad oggi ha venduto quasi 20 milioni di copie, cavalcato palchi di ogni dove, e pubblicato la bellezza di 7 dischi in studio, oltre a un greatest hits che come titolo ha “Good Times, Bad Times” che ricorda il famoso pezzo dei Led Zeppelin. Per chi non lo sapesse i Godsmack prendono il nome da una canzone degli Alice in Chains, nonché il loro simbolo e una grossa parte delle loro sonorità; in più bisogna aggiungere che la voce di Sully Erna è una sorta di misto tra quella di James Hetfield e quella del compianto Layne Staley.
Finite le presentazioni passiamo al disco vero e proprio: “Awake” è probabilmente il punto più alto di tutta la carriera dei Godsmack, un disco che suona bene anche dopo 20 anni, se non lo avete mai ascoltato andatelo a recuperare subito, se siete amanti del genere in questione, questo disco vi prenderà e probabilmente andrete anche a recuperare tutti gli altri. In certi brani i suoni delle chitarre ricordano persino il groove dei Pantera, con una produzione nitida, pulita e molto nu metal, una cosa che personalmente adoro, ma abbiamo anche certi brani e sonorità che ricordano i già citati Alice in Chains. Da segnalare la traccia “Vampires”, un pezzo completamente strumentale che lascia il segno nell’ascoltatore sin da subito, nulla di così eclatante o complicato, ma a livello di aggressività e sfumature moderne vi prenderà e vi rimarrà impressa. Da sottolineare i riff di chitarra di Tony Rambola che sono precisi e mai invadenti, in canzoni come “Awake”, “Greed”, “Going Down” che avevamo già ascoltato nella colonna sonora di “Mission Impossible 2”, insieme alla coetanea “Take A Look Around” dei Limp Bizkit. Non bisogna assolutamente dimenticare la mitica “Bad Magick” che con un riff iniziale molto moderno e nu metal prende sin da subito e appena finisce vien voglia di schiacciare il tasto replay e metterla in loop per altre 3-4 volte. La struttura è classica, ma il ritmo e il ritornello fanno venir voglia di pogare e andare a vedere questa band dal vivo il prima possibile.
Riguardo i testi di Sully, non c’è molto da dire, se non che sono più arrabbiati, violenti e consapevoli rispetto al lavoro precedente.
Insomma un disco che merita sicuramente ottima considerazione, appena lo troverò in un negozio di dischi lo comprerò, e quando avrò voglia di ascoltare un disco nu metal / alternative sicuramente lo metterò nello stereo a manetta!
Disturbed – The Sickness
Quando nel 1997 David Draiman rispose ad un annuncio di una certa band chiamata Brawl alla ricerca di un nuovo cantante si innescò una vera e propria reazione nucleare. La strepitosa potenza vocale di Draiman, approcciandosi e relazionandosi divinamente con il resto della band, portò ad un vero e proprio cambiamento nel gruppo tanto da arrivare a rinominarsi in Disturbed. Le premesse erano buone e, solo tre anni dopo, furono totalmente appurate con la pubblicazione di uno dei migliori album di tutta l’era nu metal: “The Sickness”.
I ragazzi di Chicago non potevano debuttare in modi migliori: influenzati da gruppi come Deftones, Korn e Metallica, proposero un sound totalmente deflagrante contro ogni tipo di problematiche adolescenziali. L’apertura con “Voices” è solo un antipasto di tutto quello che la band riesce a far esplodere in uno sfogo di rabbia per buona parte del disco. Le sezioni ritmiche dietro le pelli di Mike Wengren sono chirurgiche, i riff di Dan Donegan si intrecciano vorticosamente con le linee di basso del buon Steve “Fuzz” Kmak e il risultato sono pezzi dal calibro di “The Game”, “Stupify” e “Violence Fetish” dove senza ombra di dubbio si racchiude il vero marchio di fabbrica della band. L’intro di batteria in “Down With The Sickness” dà inizio ad uno dei pezzi più importanti e famosi dei Disturbed che dopo 20 anni ancora oggi si aggiudica un posto saldo all’interno di ogni loro esibizione live. Il timbro vocale e le prestazioni vocali allucinanti di Draiman fanno scintille in tutti i brani, mai scontati e sempre esageratamente energici come “Fear”, “Numb” e la successiva “Want”. I ragazzi non sbagliano un colpo, neanche con la bellissima cover “Shout” dei Tears For Fears, rinominata qui “Shout 2000”.
Che dire, ci troviamo di fronte a un ottimo primo lavoro, per molti ritenuto ancora oggi il migliore, che sicuramente ha segnato in maniera più che positiva l’inizio del nuovo millennio della musica metal.
Dopo “The Sickness”, la band continuò a sfornare album di qualità sublime come “Believe” (2002), “Ten Thousand Fists” (2005), “Indestructible” (2008) e “Asylum” (2010), prima di giungere ad un periodo di pausa tornando poi sulle scene nel 2015 con “Immortalized” e più recentemente con “Evolution” (2018).
Consigliamo dunque non solo di ascoltare l’immortale “The Sickness”, ma di recuperare tutta l’intera discografia dei Disturbed, sicuramente non ve ne pentirete. “Ouh Wah-Ah-Ah-Ah!”
Soulfly – Primitive
Dopo aver lasciato i Sepultura nel 1997, Max Cavalera fonda i Soulfly, nel 1998 pubblica il primo disco e alle porte del 2000 pubblica “Primitive” autoproclamandosi primitivo, eh sì, parlando di brutalità e compattezza del disco, questo primitivismo ha ben pochi rivali sulla piazza dell’alternative metal. In questo album troviamo abbastanza urla e “fuck” da poterci scrivere un fottuto manuale, sono essenzialmente i protagonisti di questo lavoro. Il disco induce l’ascoltatore a un’altra sfilza di nuovi stili musicali, esperimenti e sound nuovi per l’epoca. Cavalera dopo aver pubblicato due dischi come “Arise” e “Roots”, che avevano letteralmente rotto i cliché del metal classico, reinventandolo e ristudiandolo da capo, nel 2000 giunge di nuovo ad una sfida personale che si rivela un ottimo lavoro, da pogo, una mina diretta nelle orecchie dell’ascoltatore, spesso sorprendente con un mix di sound tribali, thrash e alternative metal.
Ma…udite, udite…in questo disco troviamo Corey Taylor degli Slipknot, Tom Araya degli Slayer, Grady Avenall dei Will Haven e Chino Moreno dei Deftones, impegnati rispettivamente in “Jumpdafuckup”, “Terrorist”, “Back to the primitive” e “Pain”; è una cosa che a distanza di ben 20 anni suona sempre bene, non stanca, non invecchia ed è più metal che mai.
Il disco presenta un grande mix di stati d’animo e molta voglia di sperimentare, “Primitive” è adatto per i fan dei Sepultura o meglio di Cavalera, suonerà molto strano, nuovo, innovativo, ma allo stesso tempo cattivo, forse per il fatto dei testi che sono molto arroganti, arrabbiati ed è da sottolineare l’abuso di ogni cliché rap-metal del momento. Siete pronti ad uno schiaffo con la rincorsa? Um, dois, três, quatro… Back to the primitive, fuck all your politics!
Snot – Strait Up
Gli Snot sono forse uno dei gruppi più sfortunati di tutta la scena metal statunitense e non solo. Continuando a leggere queste righe capirete il perché.
Formati nel 1996, riuscirono a firmare da subito un contratto con la Geffen Records (Elton John, Neil Young, Whitesnake, Aerosmith e chi più ne ha più ne metta) fondando quindi già delle ottime prospettive. L’anno successivo pubblicarono il primo lavoro in studio “Get Some” che, purtroppo, nonostante i numerosi ottimi voti, non riuscì a farsi spazio tra i vari colossi nascenti del nu metal di fine anni ‘90 vendendo tutt’altro che in modo consistente. Nel 1998 per cercare di aumentare la loro popolarità parteciparono anche all’Ozzfest. Purtroppo però, a fine anno, il cantante e leader del gruppo Lynn Strait perse la vita in un tragico incidente stradale. La band, superato un duro periodo di sconforto, decise di non sciogliersi e di proseguire il lavoro iniziato dal loro compagno in segno di rispetto ritenendo che Strait per primo avrebbe voluto così.
I testi scritti prima della sua morte vennero reinterpretati dai suoi amici e, il 7 novembre 2000, vide luce il risultato di un lavoro toccante quanto significativo: “Strait Up”.
Non furono pochi gli ospiti cantanti provenienti da tutto il panorama alternative ed heavy metal, tra cui Serj Tankian (System of a Down) presente nella opener “Starlight Eyes”, Jonathan Davis (Korn) in “Take It Back”, Max Cavalera (Sepultura, Soulfly) in “Catch a Spirit”, Corey Taylor (Slipknot) in “Requiem” e tanti altri come anche Ozzy Osbourne nella settima traccia parlata.
Ogni canzone è dedicata sia Lynn Strait che al suo cane Dobbs, anch’esso morto per la stessa causa. Il disco è caratterizzato tutt’altro che da pezzi morbidi, la opener con Tankian presenta ritmi spiazzanti ma incisivi, così come la seguente “Take it Back” in cui Davis, venendo dai migliori Korn, irrompe con arroganza dando un’ulteriore accelerata al sound degli Snot. “Catch a Spirit” è ancora più estrema con un Cavalera furioso come i bei vecchi tempi dei suoi Sepultura, la punkeggiante “Until Next Time” vede Jason Sears (R.K.L.) galoppare al fianco di tutta la band che dà il meglio di sè tra riff energici e sezioni di batteria impattanti. La piccola dedica di Ozzy apre la seconda metà del disco con la ballad “Angel’s Son” e questa volta alla voce da il suo validissimo contributo Lajon Witherspoon (Sevendust). Non si tirano indietro all’appello neppure Fred Drust (Limp Bizkit) in “Forever” e Dez Fafara (Coal Chamber) in “Funeral Flights” ma la vera sberla in faccia la si ha con “Requiem”, miglior brano proposto dal gruppo con un Corey Taylor giovane, graffiante e rabbioso come solo nel periodo del primo disco degli Slipknot poteva essere. Soltanto le ultime due tracce sono cantate da Lynn Strait, registrate prima di mancare: l’incontenibile “Absent” e la commovente spoken track “Sad Air”.
Nonostante i numerosi ospiti di grande spessore, nonostante il disco sia ricco di contenuti molto più che ottimi, l’album raggiunse soltanto la posizione numero 56 nella Billboard 200 (classifica settimanale dei 200 nuovi album più venduti negli Stati Uniti).
Dopo ben due scioglimenti, gli Snot tornarono in attività dal 2014 con Tommy Vext (Bad Wolves) alla voce, sostituito pochi mesi dopo da Carl Bensley attualmente in pianta stabile con gli storici Jamie Miller alla batteria, John Fahnestock al basso e ai due chitarristi Mike Doling e Sonny Mayo, senza aver più pubblicato alcun disco dall’incredibile, quanto sfortunato, “Strait Up”.
Deftones – White Pony
Mentre vivevano sulle case galleggianti in California, i Deftones registrarono il momento clou melodico e rabbioso della loro carriera, un album lunatico nato dal sesso, alcool e droghe varie. Il titolo scelto per il disco è un termine slang per indicare la cocaina. Nonostante ciò, il frontman Chino Moreno spiegò che era legato anche ai sogni.
L’universo della musica del 2000 includeva rapper e metallari, tutti uniti per una sola “causa” chiamata nu metal. Il 2000 ha visto nei negozi alcune pubblicazioni alternative/nu metal piuttosto speciali come appunto questo capolavoro del genere, il terzo album del quintetto californiano Deftones. A distanza di anni i Deftones, tuttavia rimangono una forza, una band di successo, e commerciale: per esempio “Diamond Eyes”, pubblicato nel 2010, il loro sesto LP, ha ottime recensioni e ha debuttato nella top 10 di Billboard.
Tornando a “White Pony”, il disco vendette quasi duecentomila copie nella sua prima settimana, insomma, parecchio bene per essere il 2000, creò grandi aspettative per il terzo lavoro, che nonostante le grosse pressioni della casa discografica tardava appunto a vedere la luce. L’album sorprende dall’inizio alla fine per coerenza, compattezza e coesione, per un suono moderno ed evoluto, abbastanza diverso dai primi due lavori, ma comunque abbracciando il classico nu metal, che si porta addosso fin dai primi ascolti. Canzoni come “Elite”, “Street Carp” e “Knife Party” circolano nel sistema degli adolescenti ascoltatori come un cocktail ormonale arrabbiato, misto a tempi bui e rabbiosi. Basterebbe dire che a distanza di anni canzoni come “Korea” e “Passenger” rimangono pezzi intramontabili, invece strumentalmente parlando, il suono unico di “White Pony” nasce dalla miscela di elettronica atmosferica e songwriting chitarra-basso-batteria standard. I vari riff pesanti che suggeriscono il suono classico dei Deftones possono essere ascoltati ed apprezzati anche dopo ben 20 anni.
Un’altra track indimenticabile è “Teenager“, che rimane una delle canzoni più tenere che i Deftones abbiano mai pubblicato. Un singolo arpeggio di chitarra acustica si ripete all’infinito su tamburi battenti ed elettronica graffiante; l’effetto è delicato, ma etereo, incredibilmente bello, con i testi di Chino intrisi di tristezza, tragedia, ed un senso eterno di vuoto totale.
Se dovessi dargli un voto a questo album, beh sarebbe 8, non è sicuramente uno dei lavori nu metal più ascoltati che ho in mente, e non possiedo il disco fisico, ma lo apprezzo molto.