Numero 20: numero della malizia, della cattiveria, delle insinuazioni, dei pettegoli, dei creditori e dei sospetti di tradimento.
Chuck Schuldiner era un genio: e come buona parte dei geni, è stato incompreso per molto tempo. In un’epoca, gli anni ’90, dove i grandi nomi della scena metal mondiale avevano perso la retta via in favore delle mode passeggere (?) del momento, dove il black e il death metal stavano vivendo il loro momento di massimo splendore, c’era chi osava tacciare Chuck di tradimento.
Aspettate un momento: come si poteva accusare di tradimento un, se non IL, fondatore del death metal?
Ebbene sì: negli anni ’90 il death metal non era variegato e diversificato nei vari sottogeneri in cui poi si è evoluto fino ai giorni nostri. Per citare alcune frasi del diretto interessato del nostro approfondimento, datate 1994, “oggi le persone ritengono che il death metal per essere tale debba essere per forza suonato a velocità supersoniche e con tematiche sataniche; oggi penso che bisogni scrivere cose in cui la gente possa identificarsi e questo non succede leggendo di uno zombie che mangia un braccio a qualcuno o cose del genere”. Queste dichiarazioni sono successive alla pubblicazione del quinto album dei Death, “Individual Thought Patterns“: chi conosce un minimo il decorso storico della band, sa come Chuck & Co. avessero abbandonato già dopo il primo album questi presunti “stilemi” del death metal, ricercando ed esplorando territori sempre nuovi. Tanto che già dal secondo album “Leprosy” il death marcio e ruvido dell’esordio “Scream Bloody Gore” era stato miscelato con una componente più tecnica, mettendo da parte l’assalto sonoro nudo e crudo in favore di una maggiore ricercatezza delle trame, delle strutture e delle tematiche. Tematiche che non parlano più di zombie, di sangue: i testi si fanno (e si faranno) sempre più intimi e maturi, legati a doppio filo con la vita personale di Chuck.
Vita che è stata sconquassata già in giovane età dalla tragica morte del fratello, quando il giovane Schuldiner aveva solo sette anni: si può solo immaginare cosa possa avere causato, nel suo cuore, la vista del feretro con adagiato il corpo esanime del fratello, a cui era legatissimo. Emozioni confluite nella terremotante “Open Casket”, la canzone che più di altre fa da ponte fra la violenza dell’esordio e la rivoluzione tecnica di “Spiritual Healing“, terza perla dei Death che sconvolse non poco gli addetti ai lavori, e soprattutto i fan: raramente prima d’ora si era ascoltato qualcosa di così tecnico ma allo stesso tempo tagliente e cattivo, una sorta di primordiale “violenza ragionata”. Nonostante quest’album sia quello più di nicchia e quello che gode di meno fama all’interno della lucente discografia della band, canzone come la title track o “Altering the Future” sono dei diamanti grezzi, che non risparmiano critiche alla società e alla religione. Ma “Spiritual Healing” fu un album di rottura e di cambiamento pure per lo stesso Chuck: mentre era in procinto di imbarcarsi per il tour di supporto al nuovo album, il frontman cadde in depressione e chiese di rinviare il tour. Ma non fu ascoltato, anzi: i suoi compagni si imbarcarono in tour con un nuovo cantante, voltando le spalle a Chuck.
Ciò lascerà una ferita profondissima nell’animo dell’artista, che probabilmente non si ricucì mai completamente ma che fece crescere in lui una nuova convinzione: in un momento, tutto gli fu più chiaro. Da allora, i Death diventeranno la creatura esclusiva di Chuck, che verrà modellata a suo piacimento: dopo essere stato colpito e ferito più volte, ora era il suo turno di addentare il dolore e sferrare il suo colpo. “Human” e il successivo “Individual Thought Patterns” sono encomi alla tecnica esecutiva: la perfezione strumentale rasenta cime impossibili ai più, la violenza non è scomparsa ma si è “semplicemente” evoluta. Evoluzione è una parola chiave nella storia dei Death, una storia da raccontare passo per passo (magari in futuro, in una nuova rubrica…). Perché con “Symbolic” si apre un nuovo capitolo della band, dove i suoni si fanno più ariosi, le strutture si avvicinano lentamente al progressive e la tecnica esecutiva passa da “impossibile” a “semi-impossibile”: una transizione graduale verso suoni più limpidi, fino alla definitiva forma finale.
“The Sound of Perseverance” è l’album più discusso dei Death: lo stampo progressive ha definitivamente lasciato il segno, lo scream di Chuck diventa ancora più estremo e in generale le atmosfere si fanno più diradate, quasi come se Chuck abbia una volta per tutte spazzato via il dolore, epurando il suo spirito. Uno spirito frantumato, lacerato da cocenti delusioni e lutti familiari, capace tuttavia di trasporre in musica tutta la rabbia interna dando contro a luoghi comuni, precetti musicali, tutto ciò che si diceva su Chuck. E la copertina dell’album, raffigurante un abisso oscuro che sembra vomitare fuori il malessere interiore, rappresenta appieno lo spirito del frontman: un uomo che vuole liberarsi di tutto ciò che ha tenuto dentro per anni. E mai come in quest’album si ha l’impressione di come a musicare non sia la mostruosa tecnica conferita a Chuck da Madre Natura, bensì proprio la voce della sua anima: non è un caso che “The Sound of Perseverance” venga considerato il testamento spirituale del mastermind. Fare una recensione di questa pietra miliare sarebbe del tutto inutile e fuorviante per il contesto e per il contenuto di questo editoriale. È bene soffermarsi su altro: ad esempio, su come TSOP sia il settimo centro su sette di una discografia da consegnare ai posteri e senza punti deboli: ognuno di noi ha il suo preferito, e probabilmente a molti i primi due dischi potrebbero risultare troppo grezzi e primitivi, ma il loro valore e la loro portata storica sono inattaccabili e fuori discussione. La terremotante “Scavenger of Human Sorrow”, l’intro melodico di “Bite the Pain”, la progressione epica di “Story to Tell” o il cristallino lavoro chitarristico di Chuck in “Flesh and the Power It Holds” sono solo alcune delle pietre angolari di questo capolavoro: otto tracce, otto sfaccettature diverse dell’animo di Chuck, otto canzoni che non presentano punti deboli e che non annoiano mai. E proprio in questo risiede la grandezza della band: in sette album hanno sfornato tracce che sono pilastri del death metal (e non), ma dall’intera discografia è difficile estrapolare una traccia “brutta”. Pure quando non scrivevano capolavori, sapevano proporre sempre qualcosa di diverso in grado di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, subito rapito e trascinato in un turbinio di note, emozioni, stati d’animo, pensieri.
“The Sound of Perseverance” è l’emblema dell’evoluzione dei Death, la forma finale che Chuck aveva in mente all’inizio della sua giovanissima carriera: sette album, sette sfumature diverse, sette lati diversi della sua persona. In barba ai dissidenti, ai bugiardi, ai voltagabbana, a chi lo accusava di “tradimento” e di essere un “tiranno dispotico”, Chuck ha tirato dritto per la sua strada, facendo affidamento su se stesso e sui fan che non lo hanno mai abbandonato e sempre sostenuto. Stravolgendo la line-up ad ogni disco, cercando ogni volta musicisti che potevano offrire qualcosa di diverso da coloro che li avevano preceduti: forse sul piano umano non è la cosa più leale del mondo, ma Chuck aveva subito troppi affronti per badare a queste cose.
Tuttavia, proprio quando la sua vita sembrava finalmente seguire un corso lineare, ecco che il destino si ripresenta, in vesti ancora più oscure e con intenti ben peggiori: nel 1999 a Chuck viene diagnosticato un tumore al cervello. I costi dell’operazione sono ingenti, impossibili da sostenere per la famiglia Schuldiner, ma qui entra in gioco la grande famiglia del metal: artisti, fan e addetti ai lavori contribuiscono economicamente alle spese per l’operazione e le cure del cantante, operazione che riesce perfettamente. Ma, come in un circolo vizioso, la Morte ritorna a bussare alla porta di Chuck, e questa volta lo porta via con sé: nel 2001 gli viene ri-diagnosticato il tumore e questa volta, purtroppo, non c’è nulla da fare.
Si è soliti dire che una persona non muore mai finché vive nel cuore e nei ricordi degli altri: beh, Chuck vive non solo nel nostro cuore, ma nella Sua musica che è diventata Nostra e nelle emozioni che la sua voce e le sue note ci regalano. Purtroppo un male bastardo se lo è portato via, colpendolo al cervello, proprio lì dove Chuck conteneva tutti i suoi pensieri sul mondo: pensieri che poi andavano a confluire in testi estremamente maturi, addirittura poetici in certi casi (“Without Judgement”), raffinati ma che al contempo sapevano essere estremamente diretti. Scrivendo queste ultime righe, mi sovviene un pensiero improvviso: la malattia che ci ha privati di un grande musicista e di una persona perbene lo ha colpito al cervello, non al cuore. Un cuore che dopo essere stato devastato dalla morte del fratello ed essere stato ulteriormente debilitato dalle pugnalate alle spalle di persone che credeva amiche, aveva trovato una sua serenità: voglio ricordarlo così Chuck, dilaniato nel fisico ma con il cuore in pace.
Ognuno di voi avrà il proprio preferito dei Death, ma per questi giorni, fate parlare l’emozione sulla tecnica: fate risuonare “The Sound of Perseverance” nel vostro stereo, nel vostro cuore e nel ricordo di Chuck.