Ci sono dischi col passare degli anni vengono dimenticati, altri che vengono riconosciuti come fenomeno di culto, altri ancora che, anche dopo decenni dalla loro uscita, vengono osannati dagli ascoltatori di mezzo mondo. Gli Iron Maiden sono una di quelle band del rock che, a più di 40 anni dalla loro nascita, continuano a resistere ai cambiamenti, alle nuove mode e, soprattutto, continuano imperterriti a calcare i palchi di tutto il mondo, attirando fan di tutte le età. I live tenuti dalla band sono ricchi di spettacolo e, naturalmente, di musica. Le canzoni che solitamente il gruppo porta ai propri concerti, provengono un po’ da tutta la loro discografia e, ovviamente, non possono mancare i gloriosi pezzi degli anni ’80 che hanno portato Steve Harris e soci nell’olimpo del rock. Proprio oggi, andremo ad analizzare un lavoro anni ’80 della “Vergine di Ferro”, un lavoro che ieri, 16 maggio, ha compiuto ben 37 anni, un lavoro che ha permesso ai ragazzi inglesi di confermarsi alla grande dopo il botto di vendite di “The Number of the Beast“. Ebbene, se non l’avete ancora capito, stiamo parlando di “Piece of Mind“, quinto album in studio degli Iron Maiden, il primo col batterista Nicko McBrain, tutt’oggi attivo con la band.
Come detto, “Piece of Mind” vede la luce il 16 maggio 1983 e viene distribuito per la Emi. “Parte della mente”, questo è il titolo scelto dai cinque musicisti britannici per la loro quinta release. E in effetti, un titolo così per un disco del genere, non poteva essere più azzeccato. Già dalla celebre copertina ci sono evidenti richiami alla psiche, con “Eddie”, la mascotte del gruppo, incatenato e contenuto in una camicia di forza. Ma anche lo stile musicale adottato dal gruppo ha un taglio diverso: più intricato, più elaborato, gli arrangiamenti sono più complessi e c’è persino qualche sprazzo progressive. Quindi, in un certo senso, si può dire che anche la musica di “Piece of Mind” sia più “psicologica”. L’album, anticipato dal singolo “Flight of Icarus“, ricevette una buona accoglienza, seppur non caldissima. E ancora oggi, quando si parla dei primi sette album dei Maiden, “Piece of Mind” è spesso trascurato. Perché? I fattori sono tanti, primo fra tutti, l’incastonatura di tale opera tra due colossi della discografia degli inglesi e del metal in generale, ossia il già citato “The Number of the Beast” e “Powerslave“, l’album che probabilmente catapultò la band a leggende immortali del metallo. Poi, proprio per questa virata ad un sound più riflessivo e articolato, “Piece of Mind”, da quel 16 maggio 1983, viene sempre guardato con occhio un po’ distaccato. Ma per chi scrive questo articolo, mai considerazione fu più errata. Il sottoscritto reputa “Piece of Mind” il miglior disco degli Iron Maiden, e ciò è dovuto, probabilmente, soprattutto a quella vena prog che il gruppo inserisce nella propria musica. Almeno tre brani sono capolavori assoluti, altri tre sono ottimi, i restanti sono validissimi. Il plauso maggiore va fatto ad Harris, il quale in questo disco compone in maniera davvero eccezionale. I pezzi hanno un tiro formidabile, partono, si attorcigliano e infine si snodano con una disinvoltura ed una naturalezza clamorose. E poi, Mr.Bruce Dickinson dietro il microfono fa faville, confermandosi un cantante dalle doti straordinarie. Detto questo, andiamo un po’ a rispolverare la tracklist di questo capolavoro, buona lettura!
L’apertura è affidata ad un pezzo da novanta degli Iron Maiden, “Where Eagles Dare“, dove Nicko McBrain si presenta come meglio non potrebbe dietro le pelli. Canzone meravigliosa, rocciosa, caratterizzata da un riff dannatamente incisivo e facilmente memorizzabile. Dickinson sfodera una prestazione da urlo, rendendo il brano ancora più arrembante. Da brividi la parte centrale, con gli straordinari assoli di Smith e Murray. Portare questa canzone nel “Legacy of the Beast Tour” è stata una scelta davvero azzeccata. Il pezzo che segue è sensazionale, anche questo portato nel tour “Legacy of the Beast”. Stiamo parlando di “Revelations“, una mezza ballad, a tratti davvero struggente. Un brano capace di far coincidere potenza e melodia, trovando in quest’ultima l’arma vincente. Dickinson infatti, nelle parti più lente, risulta mostruoso, quasi commovente. Per non parlare di come è orchestrata tutta la base strumentale, con chitarre armoniche e sezione ritmica da ottovolante. Oltretutto, “Revelations” è sicuramente uno dei brani dei Maiden con il testo più criptico, quasi misterioso. Andando avanti, troviamo la già citata “Flight of Icarus”, non un capolavoro, ma comunque un pezzo grandioso. Un groove possente accompagna l’ascoltatore per tutti i quattro minuti di durata mentre Bruce Dickinson ci delizia con la sua voce posata su linee a dir poco epiche. Il ritornello lo conosciamo tutti, è di quelli da cantare a squarciagola nei live. Brano immortale. “Die With Your Boots On” è una chicca, una canzone quasi mai ricordata. Si tratta di un pezzo piuttosto ordinario ma dal gran tiro, e che senza dubbio, mette addosso molta carica. L’apice lo si raggiunge negli splendidi assoli di Murray e Smith, i quali, all’epoca, erano tra le migliori coppie d’asce che l’heavy metal potesse vantare. Brano assolutamente riuscito, non spaziale, ma all’interno della tracklist si difende benissimo. Il pezzo successivo è uno degli inni dell’heavy metal, una di quelle canzoni immancabili ad ogni live della band. Stiamo parlando ovviamente di “The Trooper“, le cui liriche, ispirate ad un poema, sono incentrate sulla guerra di Crimea. Ancora oggi, dopo quasi 40 anni, questo brano è ancora in grado in fomentarci come pochi altri. Andando oltre, c’è una vera gemma oscura, intitolata “Still Life“, canzone che non si ricorda mai nessuno ma che merita davvero tanto. Si tratta di un pezzo molto oscuro, con chitarre dal sound stavolta meno pieno ma più incentrato a creare un’atmosfera tenebrosa. Davvero una gran canzone, spesso poco ricordata, ma dall’indubbio valore. I due brani successivi potrebbero essere considerati i riempitivi di questo disco, ma se ogni album metal avesse dei riempitivi come “Quest for Fire” e “Sun and Steel“, non esisterebbero problemi. La prima, è probabilmente la canzone più debole dell’album, seppur ampiamente sufficiente. Caratterizzata da un gran Dickinson sugli scudi, “Quest for Fire” è un pezzo sicuramente molto ordinario, ma con la sua andatura epica riesce lo stesso ad acchiappare l’ascoltatore. Non è tra i migliori brani incisi da Harris e compagni, però una canzone che sa il fatto suo. “Sun and Steel” è una sorta di sorella minore di “The Trooper”: l’andamento è molto simile, quindi batteria veloce e sostenuta, basso pulsante e chitarre veloci e rombanti. Però, nei suoi tre minuti e mezzo, anche questo è un pezzo che tiene, rivelandosi molto avvincente e, ancora una volta, troviamo un Dickinson in gran forma. Arriviamo alla canzone finale e forse, in questo caso, raggiungiamo l’apice di “Piece of Mind”, nonché uno dei punti più alti di tutta la discografia degli Iron Maiden. “To Tame a Land” è epica, solenne, drammatica e sicuramente è la canzone più prog del disco. Originariamente intitolata “Dune”, questo brano è un vero capolavoro, un mid-tempo dal piglio molto atmosferico, che fa immergere l’ascoltatore in uno scenario freddo e desolato. Le chitarre donano un climax medievaleggiante, mentre la sezione ritmica si dimostra molto tecnica. Da brividi la parte centrale, con Dickinson che, con la sua voce, raggiunge vette di pathos davvero incredibili e irripetibili. Di fatto, dopo questi sette, clamorosi, minuti, sul disco cala il sipario.
Che altro dire che ancora non sia stato detto? Niente. Semplicemente che “Piece of Mind”, come buona parte della discografia della “Vergine di Ferro”, resiste e continuerà a resistere al passare del tempo. Da “Where Eagles Dare” fino a “To Tame a Land”, questi magici 45 minuti di heavy metal resteranno per sempre una parte della mente, della nostra mente.