La musica come psicanalisi: provocazione tanto campata per aria, quanto con un fondo di verità. L’analisi della psiche umana, nell’ultimo secolo e mezzo, ha subìto un notevole exploit in campo medico, aprendo di fatto una nuova ala di quel grande complesso che è la medicina. Dai tempi di Freud la psicanalisi si è diffusa in tutte le arti, dalla letteratura (Svevo) alla pittura (surrealismo), e in misura minore nella musica. Musica che può senz’altro riuscire a trasmettere le emozioni, le sensazioni e gli stati d’animo che un artista prova; musica in cui possiamo ritrovare noi stessi e tutte le nostre sfaccettature. E chi, se non gli Haken, con il loro progressive metal che attraversa le decadi, possono riuscire a descrivere questa multiversità?
Giunti al quinto album e dopo aver pubblicato lo scorso giugno il primo live album, gli Haken si apprestano a chiudersi una porta alle spalle: una porta che li ha visti scalare rapidamente il gotha del metal, arrivando ad essere riconosciuti come delle punte di diamante del nuovo millennio. Ora sono entrati nella seconda fase della loro carriera: le novità non sono molte, ma sono sostanziali. Perché gli Haken ci mostrano la loro faccia nascosta, quella più oscura.
Lo avevano già annunciato e confermato nelle interviste pre-uscita dell’album, ma “Vector” degli Haken presenta i riff di chitarra più violenti e pesanti della loro carriera. Ma non è solo la chitarra a esserlo diventata: la batteria vede un upgrade in versatilità e potenza. Sono molte le sezioni in cui Hearne dà libero sfogo alla sua creatività e alla sua furia come poche volte si è visto in un album dei britannici. Alla sezione ritmica, il suo fido scudiero Green lo coadiuva alla perfezione, riuscendo pure a dare il suo contributo solista come vedremo più avanti. Forse mai come in quest’album i vari strumenti e le varie sezioni sono bilanciati alla perfezione: riff vorticosi si susseguono ad aperture più ariose, i rullanti si combinano ad atmosfere quasi schizofreniche ricreate magistralmente dalle tastiere di Tejeida. Impianto musicale su cui la voce di Ross Jennings si è libera di giostrare al massimo, dimostrando come il vocalist sappia districarsi pure in territori a lui apparentemente sconosciuti.
Dopo l’opener dai tratti industrial “Clear“, l’album esplode con “The Good Doctor“, il classico singolo di casa Haken: a onor del vero, oltre ad una seconda parte di canzone più serrata, il brano ha un certo piglio ed una verve tipica delle rock opera. A seguire, si inizia a fare sul serio e il livello tecnico inizia ad elevarsi con la lunaticità di “Puzzle Box“, che dai tratti melodici inizia ad addentrarsi nell’anticamera della malinconia e dell’oscurità.
Ma nulla ci può preparare al viaggio che i Nostri ci hanno preparato: i dodici minuti di “Veil” rappresentano il ponte tra il passato e il (probabile) futuro della band, nonché un perfetto highlight del presente. La prima parte è abbastanza canonica (ovviamente rapportato all’universo Haken, e quindi estremamente difficile per il 90% delle band) e si muove tra melodie e ritornelli dalla grande carica emotiva. E poi arriva lei. La parte centrale. Extreme progressive metal: la sezione musicale più aggressiva, violenta, irrefrenabile e cervellotica mai congegnata dagli Haken. Le chitarre costruiscono un muro granitico amplificato dalla ruvidezza e dalla dissonanza delle tastiere: un muro che la batteria cerca disperatamente di abbattere a suon di rullanti sparati a mille e una doppia cassa quasi costante. In tutto ciò, all’improvviso, il basso irrompe in questo scontro prendendosi la scena e fermando le ostilità con un assolo improvviso e al fulmicotone. Assolo che chiude la prima parte e apre la seconda, dove il climax viene preso per mano dalle tastiere di Tejeida e dalla calda voce di Jennings, in un connubio dall’alto tasso emotivo che ci accompagna all’esplosione sonora: un minuto di scambi di assoli tra chitarra e tastiera e di pure libidine musicale, che viene enfatizzato da una chiusura epica. Dodici minuti e trentacinque secondi semplicemente inarrivabili, forse i migliori dell’anno.
Già dopo questa canzone l’appagamento potrebbe essere alto, ma se volete di più gli Haken sono pronti a darvelo: i sei minuti abbondanti della strumentale “Nil By Mouth” riprendono il discorso interrotto a metà di “Veil“, in cui la band si prende piene libertà e si prende gioco dell’ascoltatore, spaziando da un genere all’altro, da una decade all’altra. In verità, il sestetto ha saldamente in mano le redini dell’album, e sa perfettamente che è ora di far calare e rallentare i ritmi:”It’s time for Jennings“, il palco è tutto per lui nella ballad “Host“, come sempre da pelle d’oca. Ma pure in una ballad, nella sua sconfinata dolcezza, l’encore finale del brano presenta ancora una volta una certa qual vena malinconica. A chiudere un album dai toni oscuramente epici ci pensa la crimsoniana “A Cell Divides” a dare una sterzata finale pimpante e schizofrenica, quasi a voler chiudere un ciclo iniziato con “The Good Doctor” e che lungo il suo percorso ha attraversato tutti gli stadi e tutti gli stati della psiche.
Pure noi avremmo attraversato un luna park di emozioni con questo “Vector”: gli Haken ancora una volta confezionano un disco che non è lontano dalla definizione di capolavoro, e che andrà di sicuro a contendere il primato a “The Mountain” e “Affinity”. Non è mio compito dirvi se quest’album sia il migliore della loro discografia, semplicemente perché mostra un lato in parte diverso della band, e chi è più legato alle sonorità più delicate e “morbide” dei primi due magari potrà far fatica all’inizio ad apprezzare questo “Vector”. Ma non potrà non riconoscerne l’immenso valore e il lavoro eccezionale che ancora una volta gli Haken hanno compiuto. Non più una conferma, non più una garanzia: semplicemente un altro passo verso l’Olimpo.