Il 1990 sicuramente è stato uno degli anni più particolari della storia del metal come in tutta la musica mondiale. Se da un lato finivano i gloriosi anni ’80, gli anni della disco, del glam e del primo thrash forte e genuino, dall’altro iniziava una nuova fase di maturazione per le band nate precedentemente ispirando e consolidando le radici e influenze dei gruppi degli anni successivi. Nonostante per molte band le cartucce migliori fossero state già sparate, sono molti i punti alti che determinano quella che è stata un’annata apice del genere, capitanata da uno dei tour festival thrash più importanti mai fatti: il Clash Of The Titans Tour, che vedeva esibirsi sullo stesso palco le band americane thrash più in voga del momento, ovvero Slayer, Megadeth e Testament con in apertura gli Alice In Chains (negli USA) e i Suicidal Tendencies (in Europa).
Oggi vi racconteremo quelli che sono, secondo il nostro punto di vista, i dieci album thrash metal più significativi del 1990. Buona lettura metalheads!
Megadeth – Rust In Peace
In questa annata piena di dischi significativi nella storia della musica, anche i Megadeth tirano fuori dal cilindro il loro capolavoro: “Rust In Peace”. Dopo l’uscita del batterista Chuck Behler e del chitarrista Jeff Young (in formazione per “So Far, So Good… So What!” del 1988), Mustaine si mette alla ricerca dei loro sostituti. Rispondono all’appello Marty Friedman e Nick Menza, che nella stesura delle canzoni presentano un’impronta potente e diversa dal sound degli ex membri (forse per una questione di diverse radici). Il disco presenta un riffing duro, veloce e molto tecnico; nascono così canzoni come “Hangar 18“, “Tornado Of Souls” e “Take No Prisoners“. Le tematiche non sono da meno, dalla Guerra del Golfo e i conflitti dell’IRA nell’Irlanda del Nord in “Holy Wars… The Punishment Due“, a una forte critica nei confronti dei segreti politici-militari in “Hangar 18“, la dipendenza dell’eroina di Mustaine in “Poison Was The Cure“, fino all’occultismo ed esoterismo in “Five Magic“.
Insomma, un disco pazzesco, nato dal forte affiatamento di tutti e quattro i ragazzi e dalla loro straordinaria amicizia che col passare del tempo avrà poi, alti e bassi; quindi che siate o no fan dei Megadeth, è obbligatorio averlo nella propria collezione. Non siete d’accordo? First mistake, last mistake!
Slayer – Season in the Abyss
Senza alcun dubbio questo è l’ultimo (dell’epoca) tra i dischi degli Slayer a essere considerato un grande classico, senza punti deboli, e amato da tutti i fan. Dal successivo “Divine Intervention” avremo un periodo più cupo e pieno di crisi per questa (e non solo) grande band. Musicalmente parlando, gli Slayer hanno attraversato una maturazione musicale sin dai primi tempi con l’uscita di “Show No Mercy” del 1983, sino appunto a “Season in the Abyss” del 1990. Che piacciano o no, bisogna ammettere che a livello musicale hanno saputo trasformarsi, migliorare e soprattutto tenere la loro dura e potente timbrica, fino a farne diventare un marchio di fabbrica.
Vengono rinnovate le collaborazioni con Rick Rubin alla produzione e con Larry Carroll per l’artwork, dimostrando così una certa affidabilità di una macchina messa ormai in moto, che pare inarrestabile. Ed è proprio questa la sensazione che trasmette questo lavoro, un’inarrestabile voglia di far musica, di picchiare duro e continuare a cavalcare l’onda del successo mondiale. A distanza di ben 30 anni ascoltiamo ancora con un grosso sorriso canzoni come “Blood Red“, “Expendable Youth” e “Born of Fire“, senza ovviamente dimenticare la ormai classica “War Ensemble” la cui aggressività del testo, la brutalità del riffing e delle ritmiche sono a dir poco spettacolari e devastanti allo stesso tempo. L’urlo con cui Araya presenta la canzone dal vivo è poi diventato un cult dei metallari di tutto il mondo.
Basterebbe dire: ‘‘Dance with the dead in my dreams…’’ per ricordare “Dead Skin Mask“, altro grande classico firmato Slayer, più lento rispetto ai tipici brani, ma oscuro e maligno come sempre. Questo brano dimostra come gli Slayer siano in grado anche di trovare le giuste melodie per completare il proprio immaginario di riff oscuri, morte e orrore. Basti pensare alla stessa “Season in the Abyss“, di cui il video è diventato uno dei più visualizzati e famosi della band, per capire che questo è un disco che risulta, sì più melodico per lo standard abituale, ma non accolto come un allontanamento eccessivo dal marchio di fabbrica della formazione.
Death – Spiritual Healing
La voce di Schuldiner è ancora più violenta che mai, con il suo ringhio che suona anche meglio di quanto non fosse negli album precedenti. Dal punto di vista lirico, stiamo vedendo una trasformazione da testi ispirati all’orrore a una tendenza più filosofica e politica. Su “Spiritual Healing” le canzoni mirano a questioni importanti come l’aborto, la religione e la salute mentale. In questo lavoro i testi sono molto evidenti e tendono ad affermare l’ovvio, con il testo di “Altering the Future” che ne è un ottimo esempio.
L’album inizia promettendo subito bene, con la forte traccia di apertura “Living Monstrosity“. Questa canzone colpisce subito l’ascoltatore con il suo memorabile testo ed il grande uso dei cambi di tempo. I Death scrivono della vita, ma non come la conosciamo; profilano parte della società: i malformati, i malati, i pazzi. “Living Monstrosity” è una canzone su un bambino “nato senza occhi, mani e mezzo cervello” – il prodotto di una gravidanza in preda alla cocaina.
Nutrendosi di rabbia e nevrosi, i Death suonano un thrash/death metal minimalista, ad alta velocità e con forza brutale, il disco ha visto l’intellettualismo di Schuldiner sbocciare in un’aggressione genuina.
“Killing Spree” è perfetta come traccia conclusiva non solo di un disco lineare, solido e compatto, ma di un lavoro duro da ascoltare e che comunque a distanza di 30 anni rimane obbligatorio per gli amanti del genere.
Kreator – Coma of Souls
“Coma of Souls” è il quinto album in studio dei Kreator, gruppo thrash metal tedesco ormai noto a tutti i metallari del mondo. L’album è stato pubblicato dalla Noise Records nel novembre 1990 e la band era all’apice della propria popolarità, avendo pubblicato il fortunatissimo “Extreme Aggression” nel 1989 e l’altrettanto successo del live album “Live in East Berlin” all’inizio del 1990. Questo è uno dei migliori lavori dei Kreator e per estensione uno dei top album metal in circolazione. L’album si sarebbe rivelato essere l’ultima fatica nel classico periodo thrash metal della band. L’apice delle loro capacità tecniche, la migliore produzione finora e l’unione di tutti i progressi nella musicalità che avevano fatto nel corso degli anni, il tutto condensato in un mega sforzo ben scritto e molto interessante, sicuramente da avere per un vero amante del thrash old school made in Germany. La musicalità è generalmente di alto livello, con alcuni forti assoli e riff eseguiti che sembrano ringhi di un cane rabbioso, aggressivi forniti da Miland “Mille” Petrozza. Lo stile musicale è thrash metal aggressivo ma melodico. Il gusto per la melodia era già emerso in “Extreme Aggression”, anche se in dosi più piccole di quanto non sia il caso qui. Il materiale è generalmente accattivante, relativamente facile da capire senza essere semplice e ben scritto. Tracce come “When the Sun Burns Red“, “Agents of Brutality”, la title-track, “People of the Lie” e soprattutto “Terrorzone” spiccano subito il volo come un’aquila a cielo aperto.
“Coma of Souls” è nel complesso uno sforzo molto apprezzabile dei Kreator.
In questo lavoro la natura feroce e aggressiva della band si fa un po’ da parte, dando spazio alla melodia e ad arrangiamenti migliori e più apprezzabili, nel complesso Coma of Souls è ancora un album relativamente duro, ruvido ed aggressivo.
Annihilator – Never, Neverland
Jeff Waters, chitarrista e mastermind degli Annihilator, con questo secondo album riesce a replicare il successo e la qualità del già ottimo “Alice in Hell” dell’anno precedente. Innovazioni, sperimentazioni e miglioramenti del sound sono le prime caratteristiche che “saltano all’orecchio”, la band riesce a rafforzare e consolidare la potenza tecnica del metal proposto con tanta energia. Brani come “Phantasmagoria”, “Stonewall” e “Imperiled Eyes” sono ancora oggi pietre miliari del gruppo e difficilmente sono assenti dalle migliori scalette proposte in sede live. Come accadrà durante tutta la storia della band, la formazione che prese parte alla registrazione di questo album è cambiata rispetto a quella che registrò il precedente studio album. Alla voce Coburn Pharr prese il posto di Randy Rampage (oggi invece troviamo lo stesso Jeff Waters, continuando a rendere benissimo ogni singolo brano estratto), mentre il chitarrista ritmico Anthony Greenham venne sostituito da Dave Scott Davis.
Riff arroganti e precisi sono presenti per tutta la durata del disco, un disco che ogni amante del buon thrash metal deve avere nella sua collezione. Headbang per oltre 40 minuti assicurato. Oggi, dopo trent’anni, la band continua a proporre dischi di ottima fattura grazie anche ad un ottimo team di giovani promettenti tra cui il nostrano Fabio Alessandrini alla batteria.
Testament – Souls of Black
Dopo un tris di releases micidiali composto da “The Legacy” (1987), “The New Order” (1988) e “Practice What You Preach” (1989), con l’inizio del nuovo decennio i Testament rilasciarono il quarto album in studio, “Souls of Black”. Le aspettative dell’epoca per il disco in questione furono altissime grazie anche al grandioso annuncio del festival “Clash Of The Titans” che avrebbe portato i gruppi thrash più in voga del momento sui palchi di tutta America ed Europa. Ne venne fuori un album ricco di perle, da molti ritenuto l’ultimo capitolo degno di nota della band (noi non siamo assolutamente d’accordo e consigliamo di recuperare anche il più recente “Brotherhood Of The Snake”).
La storica title-track, insieme a “Face In The Sky”, “One Man’s Fate” e la bellissima ballad “The Legacy” portano dentro di loro una consistenza di puro acciaio inox ed è un peccato che certi brani vengano difficilmente riproposti dal vivo ai giorni d’oggi. Chuck Billy, profondamente impegnato nel sociale nella lotta contro le ingiustizie subite dalle comunità indiane negli Stati Uniti (di cui è diretto discendente), porta tutta la sua rabbia ruggente in “Seven Days Of May”, nel tentativo di coinvolgere tutti i fratelli del dio metallo per una giusta, giustissima, causa.
Unica nota negativa del disco forse è la scarsa cura della produzione, molti suoni infatti sarebbero potuti uscire meno grezzi e impastati di quanto invece è stato. Ma per il resto ci troviamo di fronte ad un album con la A maiuscola, i nostalgici del primo classico thrash metal troveranno pane per i loro denti.
Tankard – The Meaning of Life
Come potevano mancare i tamarri thrasher di Francoforte nella nostra top 10 dei dischi del 1990? Qui sorge una domanda spontanea: “Qual è il significato della vita?” Beh, senza star lì a pensarci troppo la risposta dei Tankard è semplice e chiara: suonare thrash metal ad una velocità supersonica per divertirsi e far divertire, comporre il quarto album con canzoni dai testi ironici per scherzare sulle difficoltà della vita e restare sulla retta via del metallo, senza contaminare la propria musica con qualcosa di più alla moda. Questo è sicuramente il miglior lavoro che Gerre e soci abbiano pubblicato finora. Hanno trovato un modo per soddisfare i vecchi fan e ottenere ancora una volta una nuova cerchia di amici con cui pogare e bere allegramente. Pur avendo ascoltato i dischi precedenti e successivi, senza alcun dubbio questi sono i veri Tankard, quelli tamarri e amanti dell’alcol, ma allo stesso tempo in super forma.
Il sound del disco è più pulito dei precedenti lavori della band, ma pur sempre veloce e thrash. Un classico esempio lo sono appunto le due opener “Open All Night” e “We Are Us“, velocità e tecnica e che, soprattutto grazie ai violentissimi stop and go, fanno tornare in mente gli americani Slayer ed Overkill. “Always Theme”, è un secondo pugno in faccia, una mazzata diretta nelle orecchie dell’ascoltatore. La title-track è un altro brano che aggredisce le orecchie dell’incauto ascoltatore con dei riff taglienti ed assassini ed apre la strada alla distruttrice “Dancing On Our Grave”.
Insomma, un disco tutto d’un pezzo, qualcosa che rimarrà nella storia anche negli anni a venire, una chiara e dura risposta agli americani Slayer e Megadeth, che con i loro “Seasons In The Abyss” e “Rust In Peace” hanno stravolto il mondo della musica metal generale.
Come accennato prima, la musicalità di “The Meaning Of Life” è di alto livello, senza troppi arrangiamenti, con un nuovo ed eccellente batterista in carica (Tunn Arnulf) e senza troppi giri di chitarra difficili da ricordare, il risultato finale è stato mortale. Ad oggi è il disco dei Tankard più venduto nel mondo, e nel 2020 non c’è motivo per non comprarlo.
Exodus – Impact Is Imminent
Capita spesso nel mondo del thrash metal (o metal in generale) di non dare abbastanza importanza ad una band come gli Exodus, scatenato quintetto proveniente dalla Bay Area.Il quarto album del gruppo, “Impact is Imminent”, non è così immediato come il suo ottimo predecessore. La band ha preso il proprio suono groove e ha aggiunto una grande dose di velocità, risultando in un mix tra gli stili di “Bonded by Blood” e “Fabulous Disaster”, ma con un suono di chitarra incredibilmente più pesante e ruvido.
Come alcuni album dei ragazzacci della Bay Area, “Impact Is Imminent” non è privo di difetti, ad esempio contiene testi scadenti, artwork a dir poco mediocre e il batterista John Tempesta che non è adatto alla band come lo era Tom Hunting. Tuttavia, questi difetti non sono abbastanza grandi da rovinare l’album e non dovrebbero scoraggiare nessuno dal provare ad ascoltare questo lavoro. Il disco apre con la title-track, e già da subito possiamo sentire arrivare in faccia il pugno sferrato dagli Exodus. “A.W.O.L.”, canzone che parla dei disertori dell’esercito americano, non ci dà nemmeno il tempo di respirare, continua sul tono della precedente, il che significa più pogo in sede live. Le chitarre suonano pesanti, più ruvide rispetto ai dischi precedenti, il che non è una brutta cosa, questo dà all’album una sensazione più grezza. Lievi difetti a parte, il disco è piuttosto bello e divertente, soprattutto per quanto riguarda le chitarre; il lavoro della solista è eccellente e l’album contiene molti assoli di ottima qualità e alcuni riff davvero eccellenti.
“Thrash Under Pressure” è perfetta come traccia di chiusura non solo di un disco lineare, solido e compatto ma anche di un tipo di sound legato a schemi compositivi tipici di quel particolare metal made in U.S.A. che da lì in poi non sarebbe più stato (purtroppo) lo stesso.
Anthrax – Persistence of Time
Sin dai primi anni ’80 gli Anthrax si fecero rispettare egregiamente, guadagnandosi meritatamente un posto tra le vette della scena thrash metal assieme a Megadeth, Slayer e Metallica. “Persistence of Time” è il quinto album della band di New York, per molti ritenuto il loro lavoro più maturo e meglio riuscito. Sicuramente l’introduzione di strutture musicali più complesse con continui cambi di tempo (strizzando l’occhio al progressive metal) e la scelta di aumentare la durata di alcuni brani (ventisette minuti complessivi solo i primi quattro) ha arricchito senza ombra di dubbio l’arsenale Anthrax in maniera coraggiosa quanto riuscita. Testi di grande spessore fanno da cornice ad un quadro perfettamente in linea con le capacità del gruppo di quegli anni, l’aggressività e la natura frizzante di “Gridlock” e “Belly Of The Beast” ne sono un chiaro esempio, senza farsi mancare da una catartica parte strumentale di “Intro To Reality”. Le ritmiche rombanti della coppia Scott Ian/Dan Spitz alle chitarre colpiscono duramente senza mai eccedere, affiancate dalla voce squillante di Joey Belladonna che tutti noi conosciamo.
Punto più alto dell’album paradossalmente lo si ha con “Got The Time” (cover punk di Joe Jackson), pezzo che giustamente si guadagnò un posto fisso nelle scalette di ogni concerto dei Nostri grazie anche all’indispensabile quanto eccelso lavoro di Frank Bello al basso.
Nonostante tutto, Belladonna non fu d’accordo con la svolta intrapresa dalla band a tal punto da lasciare il gruppo per conseguenti divergenze (oltre che per qualche brutto vizio di alzare il gomito un po’ troppo spesso). “Persistence of Time” è quindi l’ultimo album con JB alla voce, che tornerà in studio (e tutt’ora in pianta stabile) nel 2011 per l’album “Worship Music”.
Gwar – Scumdogs of the Universe
Formati quasi per scherzo nel 1985 da quella testa matta di Dave Murray Brockie, i Gwar sono senza dubbio una delle band più terribili (sta a voi intendere se in senso positivo o negativo) che il mondo del metal abbia mai visto. Diventati sempre più noti per la loro immagine horror-fantascientifica, con tanto di travestimenti orcheschi tutt’altro che sobri, nel 1990 pubblicarono il secondo studio album “Scumdogs of the Universe”, un disco in linea con quanto già proposto al debutto ma abbandonando in parte le sonorità punk, orientandosi in modo molto più convincente verso il ramo thrash metal. Con una formazione più o meno solidificata, le sonorità demenziali e i testi osceni dei Gwar ottennero un discreto successo con questo lavoro, grazie a cavalli di battaglia come “Sick of You”, “Maggots” e “The Salaminizer”, brani che ancora oggi vengono inneggiati dai fan che precipitano ad ogni loro live in cerca dell’ennesimo colpo di scena o effetto speciale di serie b.
Con riff contagiosamente orecchiabili e ritmi accattivanti, i Gwar colpiscono pesantemente facendo sì che gli attacchi umoristici diventino la loro arma e strumento di divertimento principale. Politica, società e tabù di ogni genere vengono continuamente surclassati dal gruppo statunitense che non concede tregua a nessuno neanche per un singolo minuto.
Non mancano variazioni stilistiche all’interno dell’album, “Love Surgery” presenta una certa impronta doom molto interessante mentre “Slaughterama” (cantata addirittura dal manager della band) è invece più una scenetta narrata che una canzone vera e propria ma la sua comicità violenta la rende indubbiamente particolare, collocandosi bene in questa raccolta di deliri del gruppo.
“Your socks they smell, your feet they stink, you never take a bath!” dal loro inno “Sick of You” dice tutto, “Black and Huge” è un’altra composizione che possiamo dire non necessiti di particolare descrizione così come “Sexecutioner”. Nessuno potrebbe mai immaginarsi di cantare testi così banali e privi di particolare contenuto, ma con i Gwar tutto è possibile e il risultato è un qualcosa di meravigliosamente assurdo che sfida ogni logica.
Se siete in vena di dedicare il vostro tempo alla scoperta dell’universo malato e divertente dei Gwar, recuperatevi “Scumdogs of the Universe”. Non ne resterete delusi.