HARAKIRI FOR THE SKY – Mӕre

by Luca Gazzola

Gli Harakiri For The Sky tornano a due anni da “Arson” (qui il link diretto alla recensione) con un nuovo album. Si tratta di un gruppo austriaco nato a Salisburgo nel 2011, esordendo con l’omonimo album l’anno seguente. In totale sono 5 gli album pubblicati, compreso questo, e consistono in post metal melodico con forti influenze black e ambient, richiamando gruppi come Insomnium, Agalloch e Alcest, per citarne alcuni; una miscela ormai collaudata di passaggi brutali a ritornelli e bridge più melodici, creando atmosfere cupe e malinconiche. Si tratta di un album piuttosto lungo, con 10 canzoni di una durata variabile dai 5 minuti e mezzo agli 11 per una durata complessiva di circa un’ora e 20 di malinconia e mazzate che si fanno pesare in tutta la loro lunghezza, ma in positivo, specialmente per chi è già navigato del genere.

Tra le canzoni rilevanti:

  • Sing For The Damage We’ve Done: seconda canzone. I, Pallbearer aveva creato un certo hype, ma è dal secondo brano che ci si addentra nell’album. Lo stile è inconfondibilmente degli Harakiri for the Sky, con parti melodiche e parti in blast integrate perfettamente in un’atmosfera cupa e malinconica, ma l’influenza post rock e doom è leggermente più incisiva, aiutata dal piano e con la partecipazione di Neige degli Alcest che appare in un paio di punti come per sorpresa, prima in pulito e poi adottando la tipica voce alterata e gracchiante di J.J., per poi lasciare di nuovo la scena agli austriaci. Che il connubio sia azzeccato lo indica anche Spotify, dove è uno dei pezzi più sentiti del gruppo.
  • Once Upon a Winter: sesta traccia dell’album. Uno dei brani che più mostra l’evoluzione del gruppo (dopo Song To Say Goodbye) in questo disco verso il doom melodico e il post rock, dove le parti pestate ci sono ma sono meno preponderanti, le melodie sono più presenti, morbide ed inserite in ritmi poco più lenti e con salti meno brutali. Si conclude con un lungo finale particolarmente orecchiabile.
  • And Oceans Between Us: settimo brano. Dei pezzi che si rifanno ad album più vecchi, questo è uno dei più rilevanti: ritmi furiosi, ritornelli orecchiabili, salti di ritmo potenti anche se un filo più temperati, adeguandosi al nuovo tema.

Rispetto ai lavori precedenti, come accennato, la componente black si è leggermente ridotta a favore della componente post metal e melodica, mantenendo comunque uno stile inconfondibile anche se “temperato” in alcuni punti, mentre pezzi come Three Empty Words o I’m All About the Dusk potrebbero benissimo integrarsi anche in album precenti. La collaborazione con il cantante degli Alcest ha lasciato delle sfumature sparse qua e là piuttosto che formare un vero e proprio featuring, come alcuni fan si aspettavano. Da “III: Trauma” (2016) in poi sembra ci sia stato un lieve rallentamento che però non ha compromesso la struttura o la dinamica dei brani, e il prodotto in sé è estremamente godibile e orecchiabile. Non ci si deve aspettare un balzo di qualità, anche perché già prima era altissima, come non ci si deve aspettare una caduta di stile, dato che si sono mantenuti coerenti dal primo minuto fino alla fine. Si potrebbe non trovare pezzi incisivi, asciutti e pestati come Funeral Dreams o Fire, Walk with Me, ma questo non è Trauma o Arson, è “solo” un altro gran buon album di una band che dimostra di avere ancora tanto da dare. Non rimane che goderselo tutto e chiedersi a quando ci sarà il prossimo.

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