In occasione della data slovena del carrozzone thrash metal con Testament, Annihilator e Death Angel abbiamo avuto modo di fare una lunga e piacevole chiacchierata con Rob Cavestany, chitarrista e fondatore dei Death Angel: arrivato con qualche minuto di ritardo, si è dimostrato estremamente gentile e ci ha parlato dell’ultimo album e del processo compositivo, così come un po’ di storia e qualche aneddoto divertente. Buona lettura!
Iniziamo con il vostro ultimo album, “The Evil Divide”, uscito circa un anno e mezzo fa: un altro disco in una serie di album validi e costanti.
Grazie!
Non ti chiederò cose riguardo il processo creativo ma, in retrospettiva, hai dei pensieri particolari riguardo al disco o a tutta la promozione svolta finora?
Sì, ha più di un anno adesso e abbiamo avuto tempo di guardarci alle spalle, la musica e le esperienze… lo adoro ancora, come quando l’abbiamo realizzato, e suona ancora fresco perché non siamo stati in tour troppo tempo questa volta. Per alcuni album passati siamo stati in tour davvero molto, al punto che ci siamo stancati delle canzoni. Siamo davvero felici di suonare queste canzoni dal vivo: quando le sento, suonano ancora nuove. Bellissima esperienza, ho amato l’album e amo suonare le canzoni dal vivo.
Tu e Mark siete i compositori principali nella band. Come funziona il processo di scrittura?
Di solito io scrivo la musica, compongo in ogni luogo in cui mi trovo, su qualsiasi dispositivo, oggi ci sono tanti dispositivi portatili su cui registrare: un cellulare, un sistema Pro-Tools portatile, qualunque cosa. Poi, quando arrivo a casa, inizio ad arrangiare il tutto e renderlo più simile a strutture vere e proprie. Poi mi trovo con il nostro batterista, Will, e andiamo in uno studio in modo da poter suonare il tutto con batteria e chitarre, per avere un feeling dal vivo, lavorare sugli arrangiamenti e registrare qualcosa. Agli altri ragazzi mandiamo quindi CD, file, email… improvvisiamo un po’ finché non abbiamo una struttura solida, quindi registriamo di nuovo. Diamo il tutto a Mark, che ascolta e inizia a buttar giù idee per i testi: di solito ci ritroviamo nel mio studio per lavorare alle linee vocali, registrare delle bozze e provare il tutto con la band, fino a quando non ci avviciniamo alla forma finale. Dopo la registrazione finale, facciamo dei piccoli aggiustamenti, qualsiasi cosa ci sentiamo di cambiare. In studio tutto può cambiare quando riascolti e riregistri, collaboriamo sulle idee con il nostro produttore Jason Suecof, che ha lavorato sui nostri ultimi tre album. Di solito è così che funziona, ma è anche vero che per altre canzoni va diversamente: a volte, mentre siamo in studio, Mark scrive qualche testo sul momento, a volte io scrivo un’intera canzone compresi i testi e la melodia vocale. Mi registro mentre canto e faccio ascoltare a Mark, che fa quindi la sua versione. Questi sono, di base, i modi in cui scriviamo.
Siete già al lavoro sul materiale per il nuovo album?
No, a dire il vero non direi proprio. Intendo dire, ci sono idee, concetti, riff… registro sempre riff e cose così, ma per come la vedo io non chiamerei “riff e idee” come vera e propria composizione. Si tratta solo di acciuffare le idee. Voglio soltanto finire questo ciclo di tour e poi, una volta a casa, ricaricare le batterie un attimo, allontanarmi dalla musica, dal metal, schiarirmi la mente e tornare carico per scrivere di nuovo. A volte scriverei anche durante i tour, ma stavolta voglio godermelo di più, stare con gli altri, perché quando te ne stai nel bus a scrivere e poi cerchi di ricordare qualcosa, ricordi a malapena i concerti. Non siamo venuti in Europa abbastanza negli ultimi due anni, per cui voglio godermi le vibrazioni dell’Europa. Per me è importante farlo, perché è ciò da cui traggo le idee per scrivere: esperienze e cose del genere. Oggi non si tratta tanto di ispirazione musicale, è molto più un’ispirazione mossa dalle esperienze, esperienze di vita che spingono la musica a venir fuori. Quindi, se me ne sto seduto tutto il giorno in un bus, non riesco a trovare molti stimoli.
Parlando di tour: siete a metà di un mese abbastanza serrato, quasi ogni giorno sul palco. Alcuni show sono andati sold out, come questo. Cosa ne pensi di questa risposta eccezionale?
È fantastico. Mi rende molto felice, è grandioso vedere che questo genere musicale faccia ancora il tutto esaurito… cioè, un po’ me l’aspettavo perché questa lineup merita davvero, ma non puoi mai saperlo veramente finché non vai in tour e vedi cosa succede. L’energia è fantastica, ci carica davvero moltissimo.
Tutte e tre le band non sono ormai propriamente underground, ma comunque sembrate tutti ragazzi molto alla mano. Mi immagino questo tour come un gruppo di amici che se la spassano e suonano. È questo il feeling tra di voi?
C’è un feeling incredibile tra tutti noi. Siamo a metà tour e Will, il nostro batterista, ha riassunto scrivendo su Facebook: “A metà del tour e nessuno vuole uccidere gli altri” (ride). Sai, di solito ci sono almeno un paio di persone con cui ti scontri. È normale, con così tanta gente e personalità diverse. Ma questo gruppo è grandioso: abbiamo tutti il nostro senso dell’umorismo diverso dagli altri, ma sembra funzionare. Ognuno è rispettoso degli spazi e delle cose altrui. Immagino che con l’esperienza ci si renda conto che bisogna fare in modo che le cose vadano così.
Suppongo che con più di trent’anni di esperienza, l’abbiate imparato.
Sì, sarà meglio per noi! Diciamo che siamo cresciuti un po’.
C’è qualcuno di voi con qualche abitudine particolare sul palco, o prima dei concerti? Ad esempio Mark sale sul palco con una bottiglia di gin, fa parte dei vostri endorsement?
No, nessun endorsement, quelli sono solo i nostri vizi! (ride) Ciascuno di noi ha la sua, si sviluppano dei rituali per essere a proprio agio. È come una coperta per sentirti al sicuro: segui le tue abitudini, hai bisogno di certe cose. Fai in modo che le cose ti facciano andare avanti ed essere al meglio possibile, suppongo. Quindi sì, tutti ne hanno, sicuramente. I giorni in sé sono ormai dei rituali: ora come ora, ci conosciamo così bene che sappiamo esattamente, in un dato momento della giornata, cosa stanno facendo gli altri in quel momento. Adesso, Will sta facendo un sonnellino, Mark si sta allenando, dopo di lui mi allenerò io e Damien l’ha fatto prima perché è mattiniero, adesso sta controllando tutti gli strumenti. Poi c’è chi ha un drink e chi fa le sue cose prima di andare sul palco… ad esempio, io devo lavarmi i denti ogni volta prima di iniziare, anche se li ho lavati due ore prima, perché non voglio avere quel sapore strano in bocca mentre suono! (ride)
Suoni chitarre Jackson da prima che io nascessi. Puoi dirci qualcosa su come è nata questa collaborazione?
Inizialmente è stato per via di Randy Rhoads, il mio primo eroe degli anni ’80. Pensavo fosse semplicemente fantastico e ovviamente, quando sei un bambino e guardi i tuoi eroi, guardi cosa usano, come si vestono, cosa fanno… quello è il modo giusto, fare lo stesso! Ho visto la sua Jackson e ho pensato “Cos’è?”, era inusuale e mi sono informato. Sono stato fortunato perché il nostro manager dell’epoca conosceva Grover Jackson, non so per quale motivo, ma lo conosceva. Mi ha presentato a Grover e ci siamo trovati subito bene! Ha detto che mi avrebbe costruito la mia chitarra, perché gli ho detto che stavo cercando di disegnare il mio modello personale. L’ho disegnato su un tovagliolo, meglio che potessi, e così fu. Poco dopo, Grover e Mike Shannon alla Jackson mi hanno costruito la chitarra. Ero estasiato, suonava benissimo e quella diventò la mia chitarra, la mia forma, l’ho suonata da allora. Ne hanno fatte molte, credo di averne sei adesso, tutte custom e tutte fantastiche. Sono fiero di ciò, perché da quanto ne so Randy Rhoads e io siamo gli unici ad avere un design originale, inventato da noi. Nel catalogo Jackson, ci sono tutti gli artisti e io sono nella stessa fila di Randy Rhoads: quando lo vedo, non riesco a crederci. È una delle cose che più mi spingono a continuare con la chitarra.
Avevi appena diciannove anni quando è uscito il vostro primo album, un disco davvero degno di nota. Quali sono stati gli elementi chiave, in quel periodo, che vi hanno aiutati a realizzare un album così bello a un’età così giovane?
Semplicemente, credo che ne fossimo convintissimi. C’era così tanta eccitazione e amore per la musica e volevamo a tutti i costi avere una band e suonare concerti, come facciamo adesso. Era talmente il nostro sogno che abbiamo preso di petto qualunque cosa facessimo: andavamo e davamo tutto ciò che avevamo. Abbiamo provato molto, ci siamo fatti promozione, incontrato gente e suonato concerti. Di base abbiamo provato e riprovato a scrivere canzoni e suonare mettendoci tutti noi stessi, emulando le band che adoravamo. La storia originale vede noi a un concerto dei KISS, per la prima volta, quello è stato il primo motivo che ci ha spinti a suonare e formare una band. Abbiamo visto i KISS nel 1979 a San Francisco, per il Dinasty Tour: la lineup originale, credo che avessi dieci o undici anni quella volta, ci hanno portato i nostri genitori perché eravamo giovanissimi. Ci siamo pitturati le facce come i KISS, è stato il nostro primo concerto e abbiamo pensato la stessa cosa: “Ecco, sembra divertentissimo!” Non sapevamo suonare in quel periodo, abbiamo dovuto imparare a farlo e a fare tutto ciò che servisse per essere come loro. Ci divertivamo anche un modo a farlo L’energia che avevamo insieme, nel posto giusto al momento giusto, nella scena della Bay Area che si stava sviluppando allora: noi c’eravamo. Non siamo una band con musicisti virtuosi o cosa. Cerchiamo di fare del nostro meglio ma siamo grezzi, rock’n’roll, inspirati dal punk, più improntati all’energia della canzone che alle capacità tecniche incredibili che, attenzione, sono fantastiche! Ma per noi era più l’energia, quello era il nostro campo. E devo dire che ha funzionato!
Nei primi anni ’90, Mark ha lasciato la band e ne avete formata piuttosto diversa, The Organization. È stato un periodo difficile per te o eri contento di fare qualcosa di diverso?
Entrambe le cose. Ho apprezzato molto, fare qualcosa di diverso: a quel punto, con i Death Angel andavamo avanti da otto anni, tre album. Eravamo molto giovani ovviamente, tutto stava succedendo molto velocemente, le cose si susseguivano in fretta. Tour, studio, la giovane età, tutto ci ha strappati alle nostre famiglie e ai nostri amici. Era strano, ma abbiamo continuato a farlo perché amavamo farlo, ma a poco a poco alcuni degli aspetti, come la parte commerciale, hanno iniziato a stancarci. Dal momento che si trattava di una situazione più professionale, siamo stati costretti a partecipare a riunioni, cercando di stare attenti… ovviamente c’è bisogno di farlo, ma quando hai vent’anni è una rottura! Fanculo, vogliamo suonare! Ma bisogna crescere e dedicarsi anche a queste cose. Poi, la morte dei Death Angel è avvenuta a causa dell’incidente in bus: una situazione davvero orribile, un incubo. Quando abbiamo realizzato che era tutto finito, con Mark trasferitosi a New York, eravamo del tutto disillusi nei confronti dell’industria, odiavamo tutto riguardo tutto a parte la musica. Nelle nostre menti, si trattava di un modo per scappare da tutto ciò e suonare. Inoltre volevamo evolvere il nostro sound, ma non nella direzione in cui stavano andando il thrash e il metal. In quel periodo, negli anni ’90s, c’era roba strana in giro… beh, non strana, ma il death metal, l’industrial e tutte le fusioni nel metal, con diverse forme estreme. Non lo capivo molto in quel momento. Ero tipo “Cosa sta succedendo al sound?” Quello, insieme al retrogusto amaro in bocca per l’incidente, mi ha messo in una posizione in cui volevo allontanarmi da tutto ciò, completamente. I The Organization erano una fuga da tutte quelle cose, per cui da questo punto di vista sono stati un bene. Ma! È stato anche, decisamente, molto difficile: ci siamo resi conto di non essere i Death Angel e di volerci separare da essi. Avevamo un nuovo nome, non suonavamo canzoni dei Death Angel. La gente poi ha scoperto chi eravamo: fan dei Death Angel iniziarono a venire ai concerti e a chiedere canzoni dei Death Angel… era una situazione strana, perché non potevamo scappare da noi stessi anche se ci stavamo provando. In aggiunta, nello stesso periodo stavamo crescendo: suonavamo concerti più grandi, come questo oggi, solo che eravamo noi gli headliner. Quindi abbiamo vietato ai promoter di scrivere ‘ex Death Angel’, volevamo distanziarci da quella band e ripartire da zero. Ci siamo ritrovati in un furgone, a guidare in giro e suonare in piccoli club, quasi senza pubblico: all’inizio eravamo tipo “Punk rock, va bene così!” ma poi i soldi sono iniziati a scarseggiare, non potevamo permetterci gli hotel e dormivamo di nuovo sui divani delle persone, e abbiamo pensato “Cazzo, è dura!” Quindi sì, è stato triste perché la band si è sciolta ma non per voler nostro, semplicemente non potevamo permetterci di continuare. Niente soldi, niente concerti validi, la nostra musica non era il ‘piatto del giorno’: era strana, non era trendy in quel momento, la gente non la capiva! Successivamente, quel sound si è fatto strada nella scena, ma noi eravamo già finiti. Mi piace pensare che fossimo in anticipo sui tempi.
Torniamo quasi al presente, nel 2001 vi siete riuniti per un concerto di beneficenza per Chuck Billy dei Testament e un altro Chuck, il compianto Chuck Schuldiner. Come vi sentivate all’epoca e come vi sentite oggi a condividere il palco con Billy, il quale è stato il motivo della reunion?
Beh, il nostro legame è davvero di lunga data: abbiamo condiviso il palco con Chuck molte volte negli anni ’80. In riferimento a ciò, ci sembra normale. Intendo dire, è bello, non è stata una bella cosa quella che gli è capitata ma è interessante perché è il motivo per cui siamo tornati insieme. Diciamo che in questo caso è uno degli strani modi in cui va la vita. Sono molto contento di esserci riuniti, perché prima avrei detto che non sarebbe mai accaduto, di riunirci come Death Angel. Cerco di non dire ‘mai dire mai’, ma questa è una cosa per cui l’avrei detto. Possiamo dire che questa sia la prova che non si può davvero mai dire mai. Siamo stati insieme più a lungo dopo la reunion che nella prima metà della nostra carriera, è fantastico.
La Slovenia è la casa di uno dei principali festival europei, il Metaldays. Quest’anno avete suonato come ultimo gruppo dell’intera manifestazione. Com’è stata l’esperienza?
Bellissima, assolutamente fuori di testa! Eravamo sorpresi, perché abbiamo visto la posizione in scaletta e di solito, quando la vedi, sei più o meno incazzato per tutti gli ovvi motivi: non ci sarà nessuno, tutti staranno andando via… io stesso non ci sarei stato, sarei già scappato! Non vuoi rimanere imbottigliato nel traffico dopo cinque fottuti giorni, sei stanco. E chiunque fosse effettivamente rimasto, sarebbe stato senza energie, stanchissimo oppure talmente disfatto da non sapere cosa stesse succedendo. Quindi ci siamo semplicemente detti “Andiamo a divertirci e basta”… siamo andati sul palco, abbiamo visto la folla ed è stato fantastico! Uno dei nostri show preferiti, tutti erano partecipi con tutta la loro energia. È stata una sorpresa, una sorpresa davvero molto piacevole.
Fra qualche giorno suonerete nel nostro paese per due date, a Milano e Bologna. Hai qualche ricordo particolare riguardo l’Italia?
In generale, abbiamo suonato in Italia molte volte e ogni volta è uno dei nostri posti preferiti in cui suonare. I fan in Italia sono davvero, davvero appassionati: l’anima che hanno, lo spirito che mettono nella musica e nella vita in generale è fantastico. Anche da bambino ho sempre pensato che l’Italia fosse uno dei miei posti preferiti, pur non essendoci mai stato! Adesso che l’ho visitata, posso dire che sì, lo è. A riprova di ciò, porterò la mia famiglia in vacanza lì, per la prima volta, l’anno prossimo. Abbiamo prenotato i voli e saremo in Italia per circa nove giorni. Siamo eccitati, loro non sono mai stati in Europa e voglio che l’Italia sia il primo posto che vedano. Per quanto riguarda gli show, sono sempre eccezionali, i fan sono incredibili. Un ricordo ce l’ho, piuttosto divertente, risalente a uno dei primi show lì negli anni ’80. Non necessariamente un bel ricordo, ma è comunque un ricordo! Non ho presente il posto, ma è stata la prima volta in cui ci siamo resi conto dell’esistenza dei bagarini con le magliette contraffatte: ricordo di aver visto questa gente vendere le nostre maglie fuori dal locale ed eravamo tipo “Ah!”, e siamo andati dal tour manager a chiedere cosa stesse accadendo. Ci ha detto “È normale, lo fanno e basta.” “No! Non è giusto, li fermeremo!”, “No, non potete fermarli.” Eravamo giovani, diciannove e vent’anni, siamo andati dal venditore e abbiamo iniziato a urlargli contro. Ricordo il tizio tirar fuori un coltello e dire “Beh, cosa vorreste fare?” e noi “Oh! Va bene, scusi. Possiamo avere almeno una maglia? È la nostra band.” E ci ha detto no (ride). Mi è rimasto impresso, abbiamo imparato qualcosa di nuovo. Funziona così in certi posti, ma amo comunque il vostro Paese. Capisco che in certi posti è così, ma a parte questo il cibo, la cultura, tutto ciò che riguarda quel posto è bellissimo, siamo davvero felici di tornarci.
Questo è quanto, grazie mille per il tuo tempo! Vuoi dire qualcosa ai vostri fan italiani?